Moonlight (Barry Jenkins, 2016) è noto al pubblico europeo e italiano soprattutto per il clamoroso errore della Notte degli Oscar 2017. Dopo oltre tre anni, tuttavia, l’opera in sé è ancora poco conosciuta rispetto all’imbarazzante evento. Per molti è rimasto un aneddoto collaterale a La La Land, o un film apparentemente troppo specifico per poter conquistare il vasto pubblico. In realtà, essendo intimo e introspettivo, riesce a trasformare il microcosmo di Chiron, il protagonista, in una storia universale di scoperta del sé.
Moonlight, Jenkins e la celebrazione della blackness
Moonlight è una celebrazione concettuale e visuale della blackness, dell’identità e del corpo nero. Alla militanza oppone la sacralizzazione della black beauty e la normalizzazione della cultura afroamericana al di là degli stereotipi. È il personale che diventa politico, raccontandosi a ogni livello dell’arte cinematografica. Regia, fotografia, scenografia, colonna sonora, tutto concorre a creare un concerto di emozioni incancellabili e ampiamente condivisibili.
Ciò che rende Moonlight universale è il tema della ricerca, del riconoscimento e dell’accettazione di sé. La storia narrata tuttavia è uno spaccato irripetibile e contingente, dettato sia dal contesto sia dalla scelta di un protagonista vivido ma introverso. Un personaggio che richiede notevole sforzo empatico al pubblico, ma proprio nella sua inespugnabilità diventa più reale, più credibile.
Struttura e temi del film
Moonlight è un percorso dentro l’anima di Chiron e attraverso il filtro del suo solo sguardo. A livello concettuale, però, è anche una riappropriazione dell’immagine afroamericana, in un film in cui significativamente non appaiono mai volti bianchi. È quel che si dice un approccio black oriented, ossia orientato al pubblico e alla cultura afroamericana.
In questo senso Moonlight si legge su due piani. È un racconto universale su sentimenti umani come la solitudine, il desiderio e l’amore. Contemporaneamente presenta un lirismo estremo, una visione poetica, intima e personale della vita di Chiron e del suo contesto storico e sociale.
È una storia in tre atti, attraverso infanzia, adolescenza e prima età adulta. Tre sequenze di identica durata, tre stralci di memoria, ricordi essenziali su cui si basa la sua identità. È un racconto estremamente ellittico, focalizzato sulla visione di Chiron e da essa stessa distorto. Nel suo tempo soggettivo, i momenti più importanti di dilatano e si allungano, permettendo allo spettatore di percepirne l’importanza.
Centralità e plasticità dei corpi in Moonlight
Molto del lavoro teorico e pratico in Moonlight ruota attorno alla centralità fisica e ideologica del corpo nero, in opposizione alle umiliazioni da parte della società bianca. La regia di Jenkins costruisce continuamente una sensazione tattile, facendo percepire la vitalità di queste figure materiche e pulsanti da cui non riesce a staccarsi. È una centralità suggellata anche nella fotografia e nel colore.
Ogni luce, ogni scelta di costume o di scenografia contribuisce a stagliare i corpi dei protagonisti ed esaltarne i tratti e la ricercata bellezza. Abiti chiari o vibranti, sfondi pastello, illuminazione al neon, stilisticamente è questa la Miami in cui si muove Chiron, ma è anche l’ambiente ideale per valorizzare la sua pelle. Non è da sottovalutare che tutti e tre gli attori che interpretano il protagonista sono infatti cosiddetti dark skinned, cioè dalla pelle molto scura.
La teoria estetica di Barry Jenkins
All’interno della comunità afroamericana stessa i dark skinned sono stati spesso svalorizzati, considerati troppo lontani dai canoni estetici caucasici. E tutto il senso di Moonlight, a partire dal titolo dell’opera teatrale da cui è tratto, sta proprio nell’opposta rivalutazione. Sta nella costruzione di un’alternativa, di un mondo e di un immaginario diverso. In Moonlight Black Boys Look Blue, questo il titolo dell’opera di Tarell Alvin McCraney. Nella luce della luna i ragazzi neri sono blu, risplendono, sono speciali.
Moonlight agisce così sull’immaginario collettivo su due fronti. Da un lato attraverso la sua trama, che affronta con delicatezza e senza stigmatizzazioni la scoperta della propria omosessualità. Dall’altro lato appunto crea un discorso continuo e parallelo sull’estetica, sulla valorizzazione cinematografica e fotografica degli interpreti.
Sono molti i primissimi piani, per esempio, come è nello stile di Jenkins. Alcuni sono persino prolungati per decine di secondi, tempo infinito sullo schermo, se senza dialoghi. Alcune sequenze cioè sono costruite per essere contemplate, per rimanere impresse nella memoria dello spettatore come lo sono in quella di Chiron. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile, però, senza l’incredibile scelta del cast.
Un film perfetto già dal cast
Alex R. Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes non hanno preparato insieme il personaggio, per scelta del regista, eppure ognuno di loro ha portato alla luce la stessa anima di Chiron. La stessa identica personalità risuona in ognuno di loro, sconvolgendo lo spettatore con la profondità delle diverse interpretazioni. Completano poi il quadro le scelte, perfette, di Mahershala Ali (Premio Oscar per questo ruolo), Naomi Harris e André Holland.
Si potrebbe dunque guardare Moonlight senza curarsi affatto del contesto da cui nasce, l’impatto emotivo non cambierebbe. Approfondire le dinamiche, le motivazioni e l’ambiente in cui si rende un film necessario, serve però a capire quanto sia rilevante nel panorama attuale. I suoi tre Oscar non sono un aneddoto né una decisione politica. Sono il riconoscimento di un valore intrinseco che merita un plauso unanime.
Articolo di Valeria Verbaro