Nino Manfredi e il teatro: “Aò, ma qui nun se ride mai!”

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Di Redazione Metropolitan

Altro che il teatro. I Manfredi, di modeste origini contadine del frusinate, trasferitisi a Roma dietro all’impegno del padre Romeo con la Polizia di Stato, vorrebbero che Nino diventasse un avvocato. Per questo lo iscrivono da convittore al rigido Collegio Santa Maria, severo istituto esclusivamente maschile di matrice marianista.

Ma Saturnino, o Nino, non va particolarmente d’accordo con il rigore educativo e spirituale di quel tipo di ambienti. Scappa più volte, tanto da convincere la famiglia a occuparsi della sua educazione privatamente. Nino è riuscito a sfuggire ai marianisti, ma una prova decisamente più impegnativa lo sta aspettando. Una prova che, per ragioni del tutto diverse, lo costringere per l’ennesima volta alla riduzione tra quattro mura della propria vis giovanile.

Nino Manfredi e il teatro: la TBC e Vittorio de Sica

Nel 1937 si ammala di tubercolosi ed è costretto a ricoverarsi presso l’ospedale Carlo Forlanini, fondato nel 1930 per occuparsi esclusivamente dei malati di TBC. I medici gli danno due mesi di vita e lo ricoverano nel padiglione dell’istituto riservato ai terminali. Contro ogni pronostico medico Nino sopravvive, ma la strada non è che all’inizio. Nino passa tre anni e mezzo nel sanatorio. Nonostante le fosche previsione dei medici, una volta negativizzato risulta l’unico sopravvissuto di tutta la sua camerata. La fibra del ragazzo è tosta, ma allora la tubercolosi polmonare è una terribile infezione con cui fare i conti.

I medici non prevedono un’evoluzione positiva delle conseguenze della malattia. “Il ragazzo è forte, potrebbe sopravvivere ancora tre, quattro anni” dicono ai famigliari. I progetti della famiglia nei suoi confronti possono finalmente riprendere da dove si erano fermati, ma l’iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza, tanto desiderata dai genitori, non accende alcun sacro fuoco. Nino pare concentrato su ben altro. In una di quelle infinite giornata al sanatorio, è arrivato Vittorio de Sica con la sua compagnia teatrale, con uno spettacolo di intrattenimento dedicato ai ricoverati. Quel giorno, nella testa del giovane Nino, viene piantato un seme, un’idea, un desiderio che nemmeno il quotidiano contatto con la morte sembra in grado di scalfire. Che siano altri ad occuparsi di leggi, norme e codicilli. Quello che vuole davvero fare Nino Manfredi è salire su un palco di teatro.

Nino Manfredi e il teatro: L’Accademia nazionale di arte drammatica

Per non deludere le aspettative genitoriali che mal vedono le sue ambizioni di “saltimbanco”, la laurea in Giurisprudenza la prende comunque. Durante la discussione della tesi trova il tempo di intrattenere gli esaminatori con un interpretazione di Arlecchino. Ma non eserciterà mai: finita la guerra, contemporaneamente al corso di studi ufficiale si iscrive di nascosto all’Accademia nazionale di arte drammatica “Silvio d’Amico”. Dopo due anni, siamo nell’ottobre del 1947, si laurea anche lì e la sua carriera parte immediatamente. La prima interpretazione teatrale in assoluto di Nino Manfredi è quella che lo vede sul palco il 17 aprile 1946 con il goldoniano “La famiglia dell’antiquario”, per la regia di Alfredo Zennaro, per cui interpreta anche “Il Ventaglio”, sempre a firma Carlo Goldoni.

Inizia presto a lavorare con Orazio Costa, insegnante delle stessa accademia. E uno dei registi, alla pari di Giorgio Streheler e Luchino Visconti, motori del profondo rinnovamento teatrale del secondo dopoguerra italiano. Recita testi drammatici spesso inediti in Italia, al fianco di Tino Buazzelli nella compagnia fondata da poco da Vittorio Gassman ed Evi Maltagliati. Qui si misurano con “Erano tutti miei figli” di Arthur Miller, “L’aquila a due teste” di Jean Cocteau, “Scontro nella notte” del Premio Nobel per la letteratura del 1936 Galdstone Eugene O’Neill. Una prima stagione ricca di riscontri e soddisfazioni, che Nino ripete l’anno successivo alla corte di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano, dove approfondisce il rapporto con le opere di William Shakespeare. Nella stagione 47/48 porta in scena “Romeo e Giuletta”, il “Riccardo II” e “La Tempesta” nella traduzione di Salvatore Quasimodo, in occasione dell’XI Maggio Musicale Fiorentino.

Eduardo e il varietà

Si dice che abbia concluso il suo rapporto con il regista nel 1951 con un “Aò, ma qui nun se ride mai!”. La sua ricerca di una personale dimensione recitativa non è ancora conclusa, tanto che l’anno successivo decide di misurarsi con un altro mostro sacro del teatro italiano: Eduardo de Filippo. Al Teatro Eliseo di Roma porta in scena tre lavori del drammaturgo napoletano. “Il successo del giorno”, “Amicizia” e “I morti non hanno paura” sono tre commedie in atti unici che affinano ulteriormente il talento attoriale di Manfredi e lo riportano ad una dimensione più propria dell’atto interpretativo. E’ appena dopo la collaborazione con Eduardo che Nino fa il grande passo al di fuori delle sale dei teatri convenzionali.

Insieme all’ex “attore bambino” Paolo Ferrari e all’attore di teatro Gianni Bonagura da vita ad un trio che affonderà il coltello nel mondo del teatro di varietà e del musical, così come nelle loro controparti radiofoniche. Ricomincia per quasi un lustro la collaborazione con Orazio Costa. Tra Roma e il teatro La Fenice di Venezia, dal ‘49 al ‘51 porta in scena Ibsen, Molnàr e Shakespeare.  Contemporaneamente gli si sono già aperte le porte del mondo del cinema. Porte che si chiuderanno solo nel 2003, un anno prima della sua dipartita.

Andrea Avvenengo

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