Lirico, emozionante, con l’abilità di risultare quasi improvvisato, sebbene sia finzione scenica. “Non ci resta che piangere“, è un film che assomiglia ad uno spettacolo. Scritto, diretto e interpretato, dalla coppia Massimo Troisi, Roberto Benigni. Stasera, e per un’unica volta, insieme in tv. Una congiunzione astrale, la comicità malinconica e stralunata di un napoletano, dimesso, umile, dalla mimica e voce di un menestrello di vicoli, e l’esuberanza incontenibile di un toscano, poetico maestro e brillante giocoliere della parola e del corpo.
“Non c’è mai stato un copione, non l’ho mai visto, al massimo c’era una sorta di canovaccio per qualche scena”. L’ha ricordato Amanda Sandrelli in un’intervista, al suo esordio al cinema nel ruolo di Pia. I due registi, chiesero ai produttori, del tempo necessario per ispirarsi e scrivere il copione. Dopo un ritiro a Cortina d’Ampezzo, di più di un mese, a spese della produzione, chiesero di cambiare paesaggio. E, dalla montagna passarono al mare. Non ancora convinti, poco dopo si trasferirono in Val d’Orcia. Alla fine, si presentarono con degli appunti. Notizie, queste, giunte da un set che, quanto pare, fu inconsapevolmente, tra divertimento generale, storia del cinema.
Non resta che… ridere
Saverio e Mario, rispettivamente Roberto Benigni e Massimo Troisi, lavorano nella stessa scuola, l’uno come insegnante e l’altro come bidello. Si perdono in macchina nelle campagne toscane, ed è l’estate 1984. Decidono di prendere una strada secondaria e, in seguito a un temporale, si ritrovano nel 1492. Catapultati indietro di quasi 5 secoli. Dopo lo smarrimento iniziale, i due si adeguano alla nuova esperienza, inserendosi nella vita di paese. Da Frittole con furore, immaginario borgo toscano, giungono le loro avventure e tanto umorismo.
L’organizzazione di un piano di fuga, resta il loro desiderio più grande. Pensano di andare in Spagna, a bloccare Cristoforo Colombo prima della sua partenza per le Indie e la scoperta dell’America. Perché, così facendo, l’americano che ha spezzato il cuore alla sorella di Saverio, Gabriella, non sarebbe mai esistito. “Non ci resta che piangere” risultò primo negli incassi della stagione 1984-1985. Uscì il 21 Dicembre e fu, l’unica volta in cui si divisero la scena i due artisti. Così uguali tra loro, per quella giocosità di bambino, nelle sembianze di adulto.
“Chi siete? Cosa portate? Quanti siete? Un fiorino!”
Benigni e Troisi, capaci di alternare l’allegro e il grave con sapienza rara. Il pianto e il riso insieme, marchio d’immortalità. L’accoppiata vincente tra il buffone di un toscanaccio, e il timido napoletano, ha l’intento di replicare il binomio Totò–Eduardo De Filippo. Il risultato sembra riportare alla Commedia dell’Arte, con personaggi atavici, belli e fuori moda, come rubati a Dante. Tirati fuori dall’antica memoria. E, in una fantomatica Frittole del lucchese, la follia giullaresca, fa vittime di risate anche gli stessi attori.
La scena del passaggio alla dogana, è stata girata più volte perché non riuscivano a rimanere seri. La battuta “Chi siete? Cosa portate? Quanti siete? Un fiorino!“, resterà impressa nella mente, tanto da divenire anche slogan dietro i furgoncini, gli stessi fiorini. E, la lettera a Girolamo Savonarola, così sgrammaticata e fuori le righe, da ricordare quella del film “Totò, Peppino e la malafemmina“. “Santissimo Savonarola… scusa le volgarità..”, mentre la penna d’oca rende inchiostro le parole.
Troisi e Benigni, “mo’ me lo segno”
Saverio (Benigni), si dedica alla macelleria. Mario (Troisi), si presenta come artista: “Mi riconoscerete, sono sempre vestito così, d’artista“. Canterà a Pia “Yesterday” dei Beatles, in un assolo, senza musica, come se Paul McCartney fosse del Vomero. E, a disturbare la concentrazione di chi si affanna, innamorato, spacciando per sue composizioni, le canzoni, l’amico che gli sussurra nel momento più sbagliato: “Digli se c’ha n’amica“. Quando, sul finale, i due protagonisti, vedranno con stupore il fumo di una locomotiva, penseranno di essere tornati nel Novecento. Ma, da una vecchia Littorina presa dal museo di Cosenza, il macchinista che si affaccerà, sarà ancora Leonardo Da Vinci. Che, fatto tesoro dei loro insegnamenti, aveva inventato il treno, rassicurandoli sui proventi dell’affare da dividere in parti uguali.
Troisi sembra vergognarsi quando recita, schermendosi e balbettando. Stonando quando canta. Viene da domandarsi se è veramente così nella realtà. Nessuno tarderebbe a rispondere si. E Benigni, a cui piace tanto fare il grullo, è la spalla, l’amico istrione in giacchetta. Smunto e minuto, non entra ed esce da un personaggio. Ma è, semplicemente, sempre se stesso. Quel genio mai dormiente. Lui, come uno che soffre d’insonnia, ma quella sana “delle rondini” di una poesia di Sandro Penna, dove non si può sprecare tempo a dormire. Garba a tutti Benigni, con quel suo viziaccio di fare il poeta. Non avrà mai grane, chi ha in mente come se fosse nelle tasche, il repertorio di Dante o di Ariosto. “L’amor che move il sole e l’altre stelle“, dice nel poema il suo predecessore toscano. E dopo il soffio creatore, c’è l’estro dell’artista, che impara senza maestri, impara facendo.
Quel che ci resta…
“Non tutto in terra è stato sepolto: vive l’amor, vive il dolore; ci è negato veder il volto regale, perciò non ci resta che piangere e ricordare“. Il titolo del film, è tratto da questa lettera di Petrarca indirizzata a Barbato da Sulmona. Scelta tra le più belle poesie lette dai due registi. Che si fermarono a “questa mi piace“, pronunciato da Troisi. Non restano che due attori in tulle a calzamaglia, paggetti medioevali e suonatori di cetra. E queste fugaci e lente parole, che si credevano dimenticate. Ma, come disse Carlo Levi, “le parole sono pietre“.
Federica De Candia per MMI e Metropolitan Cinema. Seguici sempre!