“Non comporrò più colonne sonore, lo farò solo per Giuseppe Tornatore.” Con questa promessa iniziava il sodalizio, l’amicizia sincera tra il maestro Morricone e il regista premio Oscar siciliano. Prima di lui, sedici anni indietro, l’ambita statuetta fu di Fellini per Amarcord. “Nuovo Cinema Paradiso“, la favola che si rinnova ogni volta, è stasera in tv. “O’ capisti? Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del Paradiso quando eri picciriddu“.
Musica e immagini si fondono insieme. Non possiamo scinderle, pensare all’una o all’altra separatamente. “Nuovo Cinema Paradiso” ti solleva con le note classiche fluttuanti. La mente di Tornatore corre all’età di otto anni, quando in uno stabilimento balneare al mare, per 50 lire inserite in un juke-box, scelse con un tasto il 45 giri di “Per un pugno di dollari“, e la scritta “musiche di Ennio Morricone“.
Cinema Paradiso, terra e musica
La musica accompagna la scoperta degli affetti di Totò, nella terra di Sicilia. Aspra e feconda, luci soffuse e poesia dialettale. “Lo so che faccio brutta figura, se ti vedo sono timido, mi mancano le parole giuste, non ho il coraggio di dirti che non faccio altro che pensare a te“. Prima che Salvatore Di Vita lasciasse il paese natio per non volervi più tornare. Affermandosi come importante regista a Roma. Solo una sera, alla notizia della morte di Alfredo (Philippe Noirette), proiezionista nel cinema siculo di Giancaldo, amico e mentore che lo inizia ai segreti del buio della sala cinematografica, decide di tornare in Sicilia.
Nella stessa notte, ripensa alla sua infanzia. Quando chierichetto per Don Adelfio, sperava di rubare qualche scena di baci censurata dal prete, gestore della sala “Cinema Paradiso“. E’ autentica nostalgia del tempo passato, dolore della distanza, in “Nuovo Cinema Paradiso” stasera in tv. “Ora ho capito perché il soldato andò via proprio alla fine. Sì, bastava un’altra notte e la principessa sarebbe stata sua. Ma lei poteva anche non mantenere la sua promessa. Sarebbe stato terribile. Sarebbe morto. Così invece, almeno per novantanove notti, era vissuto nell’illusione che lei fosse lì ad aspettarlo. Fai come al soldato Totò. Vattinni chista è terra maligna!” Solo lo sguardo buono di Tornatore poteva afferrare il sentimentalismo di provincia: il film proiettato sulle mura delle case, lo sputo degli spettatori in platea, lo sfondo siciliano. “Da quanto tempo avete chiuso?“. “A maggio fanno sei anni. Non veniva più nessuno. Lei lo sa meglio di me. La crisi, la televisione, le cassette… Oramai il cinematografo è solo un sogno. Adesso l’ha acquistato il comune per farci il nuovo parcheggio pubblico. Sabato lo demoliscono. Che peccato.” Solo chi ha vissuto il cinematografo, potrà comprende il dolore di un dialogo simile.
Cento notti sotto il mio balcone
Tornatore era al suo secondo film. Era il 1988 e 33 anni appena aveva ‘Peppuccio‘. La critica era perplessa. Più di due ore e quaranta di pellicola. Pare che il produttore del film Franco Cristaldi, che non si limitava solo ad esserne finanziatore ma voleva partecipare toccando le opere con il proprio estro creativo, ritirò la pellicola già prevista per contratto nelle sale italiane. Per lavorare di moviola al taglio di alcune scene. Forse reso lungo da troppi sentimenti e lacrime, per i gusti commerciali di chi comanda. Umilmente, forse anche troppo, Giuseppe accettò. Per un regista recidere una scena è come tagliare una parte di se, incidere la carne. Con meno 40 minuti, il film tornò come nuovo. A patire fu il momento d’amore tra i due protagonisti oramai adulti. Gullotta, Cannavale e Pupella Maggio, sono lo spettacolo nello spettacolo; e forse la versione integrale, è la rarità più preziosa da ricercare.
Ma la determinazione e l’orgoglio di una sala messinese, che non staccò il cartellone del film, ma, oltre il previsto, mantenne le proiezioni anche nella loro versione tagliata, fu il miracolo che aiutò inaspettatamente l’ascesa di questa opera al meritato successo. Totò torna a Roma con una bobina lasciatagli in eredità da Alfredo: il montaggio di tutti i baci tagliati dal parroco. Nel buio della sala, vuota per lui, le lacrime di Jacques Perrin sullo scorrere degli spezzoni in bianco e nero: “Catene“ con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, “La terra trema“ di Visconti e “I pompieri di Viggiù” con Totò. Vecchie scene, di quando il cinema era magico, e il fascio luminoso era una polverina di luce che attraversava il buio fino allo schermo. Ognuno di noi, resta seduto sulla poltrona insieme a lui. Perché ciascuno, ha un bacio a cui pensare. Passato, rubato, o ancora da dare.
Federica De Candia per MMI e Metropolitan Cinema. Seguici.