I familiari di Giulio Regeni possono finalmente dare un volto a chi ebbe un ruolo cruciale nell’omicidio del figlio: la Procura di Roma ha chiuso l’inchiesta. Ma questo è “soltanto un punto di partenza”. Ora chiede che le indagini si spostino in Italia, per capire che cosa successe nei nove giorni successivi alla scomparsa di Giulio. Intanto, il premier Giuseppe Conte, che era a Bruxelles a trattare sul Recovery Fund, non si è ancora espresso sulla vicenda.
I responsabili dell’omicidio Regeni
La Procura di Roma è stata chiara: ad uccidere Giulio Regeni sono stati quattro uomini della National Security, apparato del governo egiziano, che in nove giorni lo sfinirono con “orrende torture e sevizie con oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni”. Tutto ciò avvenne nella “stanza 13”, al primo piano di una piccola villa anni ’50 nel centro del Cairo. Sabir Tariq, Ibrhaim Kamel Athar, Helmy Uhsam, Sharif Abdelal Maghdi: questi i nomi dei responsabili, gli ufficiali egiziani di cui la Procura chiede il giudizio dopo cinque anni di insabbiamenti da parte del governo dell’Egitto.
La svolta nelle indagini: i testimoni
La svolta nelle indagini dell’omicidio Regeni si è avuta grazie a cinque testimoni, ora protetti, e le cui identità sono state secretate dalla Procura. Ormai non ci sono più dubbi sul coinvolgimento della National Security, a partire dalle prime due testimonianze, secondo cui il coinquilino di Giulio disse di aver fatto da informatore e permesso ad un ufficiale di perquisire l’appartamento. Il terzo testimone inchioda invece il maggiore Sharif, che avrebbe guidato l’indagine e parlato di un giovane studente italiano, controllato e poi picchiato, ad alcuni funzionari dei servizi segreti africani.
Che cosa successe dopo l’arresto di Giulio Regeni?
È grazie agli ultimi due testimoni che è stato possibile ricostruire una cronaca dei fatti dopo l’arresto di Giulio Regeni. Il primo si trovava nella stazione di polizia di Dokki la sera del 25 gennaio 2016, e dice di aver visto arrivare un ragazzo con quattro persone in abiti civili. Dopo aver dato una breve ma dettagliata descrizione, la Procura è giunta alla conclusione che si trattasse proprio di Regeni. Secondo il testimone, egli avrebbe richiesto più volte un avvocato; non solo glielo negarono, ma iniziò ad essere picchiato, per poi essere caricato su un auto bendato e portato in un posto chiamato Lazoughly.
Gli orrori della “stanza 13”
L’ultimo testimone permette di ricostruire ciò che successe dopo quanto raccontato nella precedente testimonianza. È così che si è scoperta l’esistenza della “stanza 13”. Essa è una sorta di “ufficio investigativo”, o meglio una stanza delle torture, dove vengono portati gli stranieri sospettati di tramare contro la sicurezza nazionale. Qui, il “28 o 29 gennaio”, il testimone dice di aver visto Giulio Regeni. Era legato con catene di ferro, delirante, il cui petto nudo ed estremamente magro mostrava chiari segni di tortura.
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Martina Maria Mancini