Un capolavoro. Dopo aver conquistato la Palma D’Oro al Festival di Cannes, sono arrivati anche quattro premi Oscar, meritatissimi, tra cui quello come miglior film. “Parasite” è un vero e proprio capolavoro, una rivelazione. Ma è possibile che il visionario regista sud-coreano Bong Joon-ho abbia anche attinto da uno dei più celebri poemi italiani, conosciuto e studiato in tutto il mondo, per realizzare una simile opera?
Per un occhio esperto e maniacale, all’interno della pellicola, possono infatti essere individuati alcuni collegamenti con La “Divina Commedia” di Dante Alighieri.
Da dove deriva il termine parasite
Partiamo dall’inizio. Il termine parassita, per chi non lo sapesse, ha un’origine antichissima. Tra i tanti significati, che ha assunto questo vocabolo nel tempo, c’è anche quello, secondo una tradizione latina, di “convitato”, commensale”, ma con una sfumatura fortemente spregiativa, inteso, appunto, come “parassita”, “scroccone”, colui che per mangiare gratis ricorre all’adulazione. Ed i membri della disgraziata famiglia Kim sono sostanzialmente degli adulatori, che utilizzano tutta la loro scaltrezza, attraverso toni lusinghevoli e artificiosi, per raggiungere il loro fine. O meglio, per concretizzare il loro piano: insinuarsi nella vita della facoltosa famiglia dei Park, dopo averla manipolata a puntino.
“Parasite” e l’Inferno di Dante
Ma una misteriosa legge del contrappasso, di dantesca memoria, entra in gioco sul più bello, in una fredda e burrascosa notte di pioggia. I protagonisti, costretti dal rientro anticipato dei loro datori di lavoro a scappare a gambe levate dalla splendida villa di questi, dove stavano gozzovigliando di nascosto, scivolano via per le strade deserte della città sotto un acquazzone terribile. L’ambiente che mano a mano si srotola in queste sequenze sembra essere perfettamente ricalcato sulla demoniaca struttura dell’Inferno descritto da Dante. Il temporale impazza senza tregua, il cielo è del color delle Tenebre, un alto muraglione si staglia tremendo e gocciolante, attorniato da una interminabile scala che precipita verso il profondo. Pare davvero di essere di fronte ad un moderno e diretto accesso per gli Inferi.
E i Kim, completamente inzuppati, vengono sempre più inghiottiti in questo apocalittico scenario. Corrono. Corrono radenti ai muri come topi impazziti, zampettando giù per fiumi di gradini e attraversando umide gallerie, per tornare nel loro degradato quartiere di appartenenza. Qui, dove le anguste viuzze dei bassifondi sono cosparse di rottami accartocciati su stessi, che si comprimono accanto a sculture di spazzatura, tutto è stato sommerso dall’impeto violento dell’acqua, compresa la loro casa. Una sorta di soffocante covile in un lercio scantinato infestato dagli scarafaggi, dove i vetri delle finestre richiamano ogni sera file di ubriachi a pisciarci contro. Fango, sporcizia, liquami marroni che esplodono dal water, ora inondano sempre più le stanze della loro “tana”, fino ad inabissarla sul fondo dell’orribile pantano. Uno spettacolo spaventoso, molto simile a quello della seconda bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, in cui sono puniti (ma guarda un po’) proprio gli adulatori, che giacciono in un fosso, immersi fino al capo nello sterco.
La condanna di Bong Joon-ho
Bong Joon-ho condanna fortemente il comportamento dei suoi personaggi da dietro la macchina da presa. Ed infatti il loro piano è destinato a fallire, ma fallire tragicamente, come una sorta di punizione divina per aver osato una così cospiratoria impresa. C’è chi muore, chi resta cerebralmente lesionato, chi dovrà vivere con il dolore della morte di un figlio nel cuore, chi infine non può fare altro che scegliere l’auto-carcerazione in un bunker sotterraneo. Insomma, coloro che, attraverso metodi scorretti ed ingannevoli, si azzardano a scavalcare i cancelli di un ipotetico “Paradiso” terreno, fatto di benessere, guadagno e ville ultramoderne, finiscono inevitabilmente col franare tra le schiere dei “dannati eterni” per patire una crudelissima pena. In questo caso la distruzione totale del nucleo familiare, ovvero l’unica autentica ricchezza su cui i Kim potevano realmente contare.
Tartaglione Marco