Per celebrare l’Oscar alla carriera conferito alla nostrana Lina Wertmuller, Cine 34 ci ripropone il suo capolavoro “Pasqualino Settebellezze”, film uscito nel dicembre del 1975 e che ricevette diverse nomination durante l’edizione del 1977. Riviviamolo insieme.
Lina Wertmuller, la primissima donna nostrana a ricevere una nomination per gli Academy del 1977, in Italia aveva già raggiunto una discreta fama, anche grazie alla gavetta fatta come aiuto regia di un certo Federico Fellini. Tuttavia, per i tempi, vedere figurare il suo nome durante la notte degli Oscar non poteva destare che scalpore. E, a ben vedere, le motivazioni c’erano tutte. “Pasqualino Settebellezze”, volenti o nolenti, a distanza di quarantacinque anni, è indubbiamente entrato a far parte della nostra cultura, divenendo un caposaldo.
Del resto, se un film comincia con “Quelli che…”, lo storico capolavoro di Enzo Jannacci, frattanto che scorrono diverse immagini d’archivio mostranti Hitler e Mussolini, ponendo un accento sulle contraddizioni di cui tale brano è intriso, i presupposti che ci si trovi dinnanzi a un capolavoro sono parecchio tangibili.
La trama, raccontata tramite una serie di flashback, ci mostra Pasqualino Frafuso (interpretato magistralmente da un Giancarlo Giannini candidato anche agli Oscar), napoletano disertore durante la Seconda Guerra, il quale, insieme a Francesco (Piero Di Iorio), un colto commilitone che è fuggito dal campo di battaglia nonostante, inizialmente, si fosse arruolato perché convinto del giuramento prestato al Duce, si ritrova arrestato dai Nazisti e portato in un campo di concentramento. Qui, forte del suo savoir-faire con il gentil sesso, prova a conquistare la fredda comandante per fare fedeltà al suo unico e solo motto: tirare a campà.
I flashback, ambientati pochi anni prima nella Napoli del Ventennio, lo vedono nelle vesti di un guappo che aspira a una vita di successi, ma che si macchia dell’omicidio di Totonno Diciotto Carati, un uomo che aveva costretto Concettina, sorella di Pasqualino, a esibirsi in un postribolo, promettendole un matrimonio che mai avrebbe avuto luogo. La proposta fattagli da don Raffaele è quella del delitto d’onore, ma Pasqualino, intimorito e, al tempo stesso, impulsivo di natura, non esegue a dovere l’incarico, finendo arrestato dai carabinieri. Scampa la prigionia con l’infermità mentale, ma, viste le terribili cure del manicomio, sceglie di arruolarsi nella Guerra nella quale l’Italia è entrata da poco.
Le avance alla comandante, con un amplesso non riuscito, tuttavia, gli porteranno solo la possibilità di decidere chi far uccidere dai Nazisti i quali, sotto indicazioni della donna, costringeranno Pasqualino a sparare a Francesco. Tempo dopo, ritornato a Napoli, logorato da ciò che ha fatto negli anni, non si sente più in grado di criticare la scelta delle sette sorelle e della sua fidanzata di prostituirsi, e, nell’amara scena finale, accolto dalla sua amata madre, si osserva come un uomo sconfitto allo specchio, chiosando con “sono vivo”.
Partiamo con la nostra analisi, parlando del finale lodando, allo stesso modo dell’inizio, la canzone finale di Jannacci, “Tira a campà”. Un contraltare perfetto a “Quelli che…”, sardonica e divertente, che, con una sorta di cerchio, prova a mostrarci lo sguardo della regista sul singolo individuo di fronte alla grandezza della massa che era stata espressa all’inizio. Ciò è osservabile grazie all’evoluzione di un personaggio, il quale, con lo sguardo tipico del cinema americano – amante delle redemption story – potrebbe essere tranquillamente la storia di un “cattivo diventato buono”. Tuttavia, poiché il buon cinema è quello che ci pone delle contraddizioni, dobbiamo fare dei distingui.
Per prima cosa, ricordandoci anche della carriera della Wertmuller, sempre in prima linea per difendere i valori della donna, la possessività del protagonista nei confronti della sorella Concettina, si tramuta sin da subito in una critica sociale – neppure troppo velata – a quella che era un’autentica barbarie, il delitto d’onore, cui, tuttavia, la legge fece fede sino alla nascita della Costituzione. Ciononostante, la Wertmuller ci lascia intelligentemente con quel sapore agrodolce tipico delle opere ben scritte, poiché, laddove l’atto in sé del delitto d’onore è riprovevole, di certo non si può dire che la libertà delle donne presenti nell’opera, sia elogiabile, essendo Concettina – e in seguito tutte le altre – una prostituta.
L’evoluzione caratteriale del protagonista, tuttavia, non è sinonimo d’insegnamenti acquisiti, bensì di fallimenti. E’ forse questa la più grande domanda che il finale ci pone: Pasqualino accetta come compromesso la libertà delle sorelle e della sua giovane fidanzata di prostituirsi, solo perché le sue precedenti pretese da “uomo di casa”, lo hanno portato a rischiare la morte. In questo senso, il sentirsi “vivo”, come dice nella chiosa, non è una vera e propria vittoria, bensì la piena consacrazione della sua codardia, la quale, di fronte al prospetto di una o più situazioni di morte, l’ha visto sempre scegliere la strada della fuga. Non voleva fare “il buffone” per ottenere l’infermità mentale, ma ha accettato tale compromesso per non incorrere nella pena di morte, e, allo stesso modo, impaurito dalle pratiche del manicomio, ha scelto la Guerra dove, poco dopo, ha disertato.
La fuga, i compromessi, la mancanza di un vero e proprio codice morale in favore dell’istinto di sopravvivenza più radicale, l’hanno sostanzialmente portato a doversi “accordare” con il mondo. Pasqualino, inevitabilmente, è soddisfatto di essere sopravvissuto a tutto, ciononostante, la vita che si appresta a vivere, d’ora in poi, lo vede come uno sconfitto. La tanta filosofia che ci pone quell’ultima e iconica scena, apre la strada a mille interrogativi, contestualizzati, nell’epoca di uscita del film, come una sottile critica alla società dei compromessi, capace di progredire stancamente, solo per celare delle radici ipocrite e conservative, dietro a facili sorrisi. Per questo, indubbiamente, il principio dell’opera, sostenuto da “Quelli che…”, non può essere fatto a caso, ma scelto appositamente per presentarci uno dei tanti, uno di quelli che…
Per concludere, spendendo due parole sulla novantaduenne Lina Wertmuller, non possiamo che esultare anche noi per l’Oscar… anzi, premio “Anna” come l’ha ribattezzato lei. Davvero un peccato che tale riconoscimento, il più alto nel mondo della settima arte, sia giunto così tardi. In pochi – forse solo Nanni Moretti, che definì sopravvalutato questo film in “Io sono Autarchico” – potranno mai oppugnare tale riconoscimento.
MANUEL DI MAGGIO
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