Conquista delle libertà come essenza stessa dell’esistere e non squallida prosa su come si pensa d’aver capito a vivere. Modus operandi e un fabbricare quotidiano, il levigato gusto a questo è la raffinatezza. Patricia Lee Smith a tutti nota come Patti Smith è indubbiamente un degno testimone di questo stile attitudinale. Nata a Chicago il 30 dicembre 1946 la Smith è per prima cosa una poetessa, una baccante, una strega alla Florence ante litteram; poi una artista ed una cantautrice, che a cavallo tra gli anni ’60 ed gli anni’70 sconvolse la scena della musica rock statunitense e internazionale aprendo le porte a quell’ondata di sonorità punk e alla new wave che sarebbe venuta di lì a poco. Un carisma magnetico ed avvolgente, una personalità perturbante e vulcanica, una ‘sacerdotessa’ Patti Smith che fu un vero terremoto per le sue capacità di scrittura. Facoltà con le quali la Smith pubblicò undici album in studio e dei quali preleviamo uno dei più noti, il primo, l’esordio, il celebre Horses del 1975. Sulla cui copertina appare la Smith vestita come in una parodia di Frank Sinatra, in un posa tratta da una fotografia di Frida Kahlo ad opera di Robert Mapplethorpe.
Jesus died for somebody’s sins but not mine – Patti Smith
Il disco d’esordio Horses di Patti Smith pubblicato per l‘Artista Records si apre con Gloria, una frenetica reinterpretazione di un classico firmato Van Morrison e portato alla notorietà dal suo gruppo i Them nel 1964. “Gesù è morto per i peccati di qualcun’altro ma non i miei, i miei peccati mi appartengono” recitava nel testo. E le liriche per questa autrice sono di livello altissimo. Perché diciamolo senza mezzi termini: Patti Smith è una delle più grandi paroliere della musica rock e della contemporaneità musicale in senso lato. Allieva simbolica di Joni Mitchell e Joan Baez, la Smith che venerava Maria Callas si evolse in forma terza adatta ai tempi della sovversione. In una New York fermentata e ribollente di arte ed avanguardie, dalla Beat Generation di Allen Ginsberg alla conquista della vita sulla strada di Jack Kerouac, fino alla Pop Art di Warhol; la graffiante voce di Patti Smith scandì e dissacrò l’ideale religioso del sacro inteso come consuetudine e convenzione in un’euforica frantumazione degli schemi di costume.
Redondo Beach a dispetto delle sonorità raggae e ‘solari’ da cui è composta fa intravedere un pervasivo cono d’ombra e oscurità tra i versi che l’attraversano. Una canzone che la stessa Smith dichiarò essere stata scritta dopo un violento litigio con la sorella Linda; e che racconta la vicenda del suicidio di una ragazza innamorata di un’altra ragazza. Anni dopo il brano verrà ripreso da Morrisey per There Is a Light That Never Goes Out. Seguono i 9 minuti di Birdland in cui il canto sibilante e singhiozzante dell’artista racconta le vicende di un bambino – il cui padre è morto – implorando di tornare a casa mentre guarda il cielo sdraiato sul prato. La chitarra qui fa da discreto sostegno sonoro in forma d’assolo al sofferente monologo della voce perpetua. Chiude il lato A del disco Free Money, una febbrile ed esaltante cavalcata in crescendo sul rapporto tra amore e denaro; sublimata dalle dinamiche di percussioni e l’eccitante progressione nella chitarra di Lenny Kaye, fino all’esplosione corale d’una amazzone underground in carica da battaglia.
Horses di Patti Smith è un capolavoro d’identità come effetto secondario di intenti
Il lato B dell’opera si apre con Kimberly, un brano con profetiche sonorità anni 80′; a testimonianza di quanto la Smith fosse una precorritrice dell’ondata new wave che stava per abbattersi sul mondo della musica. Una batteria cadenzata in tono ghignante ed ironico e frasi d’organo compongono la traccia che accoglie sfumature e armonie vicine ai Velvet Underground. “L’urlo di migliaia di uccellini azzurri“, con queste parole Patti Smith definisce lo sperimentale ed innovativo stile strumentale di Tom Verlaine. Verlaine – importantissimo chitarrista nel passaggio tra punk rock e new wave – fornisce in Break It Up un ululato struggente in una canzone tra l’epico ed il fiabesco (brano sicuramente molto ascoltato da Loredana Bertè ).
Land è divisa in tre sezioni: Horses che dà nome all’album è veramente l’accelerazione al culmine d’una pazzia, lucida e delirante ma vibrante ed energica e che aumenta di intensità ad ogni giro sopra un cavallo imbizzarrito in piena corsa. In una ripetizione màntica della parola, tra vocalizzazioni gutturali che farebbero della Smith la perfetta moglie musicale di Jim Morrison checché ne dica lei stessa; ed invocazioni di un fantasmagorico Johnny in Land of a Thousand Dances preso in prestito da William Burroughs, prima ucciso brutalmente e poi spinto in avventure. Concludendo il trittico con La Mer(de) provocante continuazione sussurrata. L’album si chiude con Elegie nel quale appare anche Allen Lanier dei Blue Oyster Cult. In un’atmosfera d’inquietudine e solenne celebrazione come nella chiusura di un rito pagano; la voce oscillante tra tono minore, distorto e malinconico falsetto ci accompagna verso il silenzio.
Non fa arte per conquistare una diversità e non sbandiera la propria diversità come se fosse la diversità in sé, a produrre un’opera artistica.
Horses di Patti Smith è intriso di rabbia, droghe, dolori, tragedie e sperimentazioni culturali che a 45 anni di distanza ne fanno un disco di una modernità abbacinante per tematiche e sonorità. Ma è soprattutto la prova di come il capolavoro d’un artista;(quindi la sua identità e cifra) emerga attraverso un effetto indiretto e secondario nella creazione, rispetto agli intenti e ad una laboriosità a prescindere indispensabile. Patti Smith scrive Horses a causa ed in virtù della diversità che la contraddistingueva nella vita e la cui esistenza l’album testimonia. Non scrive per raggiungere una diversità. Non fa arte per conquistare una diversità e non sbandiera la propria diversità come se fosse la diversità in sé, a produrre un’opera artistica. A monito neanche poi troppo velato per le nuove generazioni di musici, che la diversità che affiora non è costrutto da inseguire o bandiera da sventolare. Ma dote da tributare attraverso la prassi della propria ricerca.
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