Il 25 settembre sindacati e governo si riuniranno per discutere dell’attesa riforma delle pensioni. In particolare al vaglio dell’esecutivo ci sarebbero due ipotesi. La prima prevederebbe quota 98 per i lavoratori impegnati in lavori considerati usuranti. La seconda ipotesi invece prevederebbe quota 101 per tutti gli altri lavoratori.
Le due ipotesi di riforma delle pensioni
La sperimentazione della quota 100 volge ormai al termine e l’unico riferimento legislativo pensionistico che rimarrebbe sarebbe la riforma Fornero. Sono al vaglio però del governo e sindacati due ipotesi di riforma. La prima sarebbe la quota 98 per i lavoratori che svolgono lavori usuranti. Persone come gli operai agricoli e gli infermieri andrebbero in pensione a 62 anni di attività e 36 di contributi secondo un meccanismo che non avrebbe penalizzazione sugli assegni mensili dei lavoratori.
La seconda ipotesi che potrebbe essere discussa il 25 settembre da sindacati e governo e la cosidetta quota 101. Essa prevederebbe per tutti i lavoratori che non svolgono occupazioni gravose e usuranti la pensione a 64 anni con 37 di contributi. Questa quota però prevederebbe alcune penalizzazioni sull’assegno mensile o alcuni decrementi derivabili da un ricalcolo contributivo ma scongiurerebbe l‘inflessibilità della riforma Fornero. Una terza ipotesi al vaglio è quella di estendere quota 41 a tutti i lavoratori e non solo alle categorie usuranti. Un meccanismo che prevederebbe 62 anni di età e 41 di contributi non ben visto dal governo perchè ritenuto di difficile sostenibilità economica.
La posizione dei sindacati
Dal canto loro i sindacati vorrebbero una soluzione che sposti l’età pensionabile a 62 anni contro i 67 attuali e un numero fattibile di anni di contributi da versare soprattutto per i lavoratori più deboli del mercato. “Innanzitutto va ridotta decisamente l’attuale soglia dei 67 anni. Noi riteniamo che nella nuova fase, che sarà prevalentemente nel regime contributivo, 62 anni possano essere sostenibili, senza aggancio automatico alla speranza di vita”, spiega infatti Roberto Ghiselli, segretario confederale della Cgil.
“La stessa Corte dei Conti riconosce che nella componente contributiva della pensione vi è una certa indifferenza attuariale dei costi rispetto all’età in cui si va in pensione. I contributi minimi richiesti per andare in pensione non possono essere 36 o 38, soglie contributive alle quali tra un po’ non arriverà più nessuno, soprattutto i più deboli sul mercato del lavoro”, conclude lo stesso segretario.