Un articolo uscito la scorsa settimana sul New Yorker ha scatenato un dibattito in Italia e all’estero sui simboli e i monumenti fascisti. Ma parte dai presupposti sbagliati.

“Una volta conquistata, Cartagine, regina del Mediterraneo, venne rasa al suolo. Bruciate le case, abbattute le mura e il porto, fu passato l’aratro sulle rovine della città per cancellarne ogni traccia e il sale venne sparso sui solchi affinché nulla potesse più crescervi”. Carthago delenda est, proprio come aveva chiesto in ogni modo Catone al senato, fino al giorno della sua morte. Cancellata ogni sua traccia, scomparsa definitivamente, eliminato ogni suo ricordo. Perché è utile ricordare questo passaggio di Polibio sulla terza guerra punica, e cosa c’entra con l’articolo del New Yorker sui monumenti fascisti?

Il passaggio appena riportato è quantomeno utile per capire in che ottica si pone la redattrice dell’articolo, la professoressa Ruth Ben-Ghiat, docente di storia e Italian Studies alla New York University. Scorrendo il pezzo, appare molto chiara la posizione della professoressa riguardo i monumenti in questione. Posizione ben chiara fin dal titolo: perché ci sono così tanti monumenti fascisti ancora in piedi in Italia? L’idea che percorre tutto il pezzo è che la posizione italiana riguardo il Ventennio sia ancora molto ambigua, e che la sopravvivenza dei monumenti sia frutto di questa ambiguità, come se non si sia voluto fare i conti con il proprio recente passato proprio partendo dalle sue vestigia più ingombranti.

L’autrice parte dai monumenti fascisti dell’Eur (su tutti, il Palazzo della Civiltà Italiana) per saltare di palo in frasca, collegando – in maniera quantomeno ardita – la presenza dei monumenti ad un grande bacino elettorale per l’estrema destra italiana (Il MSI, nato già nel 1949, che non andrà mai oltre il 10% di voti nel corso di tutta la sua esistenza politica, per arrivare poi ad Alleanza Nazionale, sua discendente ed ex alleata di Silvio Berlusconi dal 1994 al 2006). La Democrazia Cristiana, inoltre, non avrebbe fatto quanto necessario per sradicare totalmente il fascismo dalla giovane repubblica poiché troppi personaggi influenti, tra le sue fila, erano compromessi con il Ventennio appena trascorso. Si arriva poi a fare un paragone con la Germania, dove molti monumenti del passato Reich sono stati distrutti (ma omette che, anche lì, gli ex nazisti hanno potuto contare su numerose complicità e appoggi, ben dopo il processo di Norimberga). Infine, si passa a descrivere sommariamente il caso del memoriale a Graziani (ex generale, ex vicerè d’Etiopia, nonché spregevole criminale di guerra), che il sindaco di Affile (Lazio) aveva cercato di far erigere, in spregio alla legge Scelba e alla legge Mancino, in piena apologia di fascismo.

Cosa viene fuori da questo miscuglio? Lo diciamo chiaramente: un bel niente. Solo una polemica sterile, non un vero dibattito sulla storia e sull’uso pubblico che di essa si fa costantemente in Italia e ovunque nel mondo. Un miserabile clickbait, ancor più miserabile proprio perché viene da una rivista molto acuta ed intelligente come il New Yorker. 

Perché è giusto che i monumenti fascisti non vengano abbattuti? La risposta è semplice: l’iconoclastia non risolverebbe il problema, affatto. Quei palazzi, quei quartieri, sono lì a ricordarci da dove veniamo. Ci ricordano anche come abbiamo vissuto uno dei periodi più bui e degradanti della nostra storia. La dittatura, le leggi razziali, il confino, la guerra coloniale condotta con armi chimiche, le stragi di guerra. Quei monumenti sono lì a ricordarci quanto sia stato folle il sogno del nuovo impero che Mussolini tentò di creare, così come ci ricordano costantemente quanto sia falso il mito auto assolutorio degli “italiani brava gente”, nato dopo la guerra. La vera scommessa, più che distruggerli, sarebbe di riempirli di un nuovo significato, insegnare alle nuove generazioni cosa abbiano simboleggiato, non distruggerli. Da demoliti non servirebbero a nulla, da integri possono ancora insegnare. Una rieducazione delle nuove generazioni, riguardo il recente passato, sarebbe salvifica.

Secondo il principio della professoressa Ben-Ghiat, a questo punto, andrebbe tirato giù anche il Colosseo. In fondo, lì si maltrattavano animali e li si costringeva a combattere contro gli uomini. O, ancora, vi venivano gettati i primi cristiani perseguitati per essere sbranati dalle belve. Perché un tale simbolo di barbarie dovrebbe restare in piedi e quegli altri no? E i Fori? Lì si compravano e vendevano schiavi, oltre a merci provenienti da terre prima conquistate e poi sfruttate fino all’osso. Perché i fori hanno diritto di restare in piedi e l’Eur no, a questo punto?

L’errore di fondo dell’articolo è nel voler a tutti i costi leggere le cose di ieri con l’occhio di oggi, dimenticando che lo storico (più di chiunque altro) dovrebbe adottare quantomeno una prospettiva intellettualmente onesta e in grado di comprendere (grazie alla sua formazione) il contesto in cui un particolare evento/edificio/fattore ha avuto luogo. Questo proprio allo scopo di evitare il ripetersi costantemente di polemiche inutili e improduttive come questa. Almeno in teoria.

Lorenzo Spizzirri