Se il 2020 è un anno che non dimenticheremo mai per via di una pandemia che ha letteralmente svestito ogni Paese del mondo, mostrandone fragilità e debolezze, il 2021 è l’anno che non dimenticheremo per la presa di coscienza di come “dagli errori non si impara”. Neanche uno stesso “grande male” è riuscito a farci capire che siamo veramente tutti uguali, e che niente ci rende migliori degli altri; che non c’è razza, religione, status sociale o economico che tenga. Il Covid ci ha portato indietro di anni per quanto riguarda condizioni di vita, lavoro e istruzione. E in un modo o in un altro, tutti ne abbiamo pagato un prezzo. Sarà proprio per questo che la necessità di trovare un capro espiatorio è parte della natura umana. Ciò che ci fa sentire meglio, esattamente come fa la fede: quella “dimensione” a cui si guarda quando preferiamo non guardare dentro noi stessi. Agli albori della pandemia, questo destino è toccato agli asiatici. Da quando il coronavirus si è diffuso partendo dalla Cina, gli episodi di razzismo sono aumentati drammaticamente. E il merito va anche e soprattutto ai media italiani e non, i quali non hanno rinunciato all’identificazione di quel “Chinese virus”, costringendo una gran fetta di popolazione mondiale a vestire i panni del “Covid-19 personificato”. In uno studio pubblicato sull’American Journal of Public Health, alcuni ricercatori dell’università della California hanno analizzato più di un milione di hashtag e dimostrato una correlazione tra l’utilizzo dell’espressione “chinese virus” e sentimenti anti-asiatici. Mentre un rapporto delle Nazioni Unite dello scorso agosto denunciava non solo aggressioni fisiche e verbali, ma anche quelle inerenti il rifiuto di garantire loro l’accesso ai servizi pubblici e privati. Poi c’è stato l’attacco di Robert Aaron Long, avvenuto lo scorso 16 marzo ad Atalanta, in seguito al quale sono morte 8 persone, di cui 6 donne asiatiche, e quello è stato l’apice del razzismo sistemico che ha fatto esplodere proteste in tutte le strade delle più grandi città statunitensi, riempendo cartelloni e schermi virtuali dello slogan Stop Asian Hate. Perché quello di Long non era un caso isolato. Le radici del razzismo nei confronti degli asiatici, negli Stati Uniti, risalgono a metà dell’Ottocento quando furono varate due leggi contro l’immigrazione: the Page Act del 1875 e the Chinese Exclusion Act del 1882, con cui si vietava ai cinesi l’ingresso negli Stati Uniti a causa di una diffusa xenofobia e, più in generale, per via dei lavoratori locali preoccupati per la concorrenza straniera. Questo tipo di leggi, oltre a limitarne l’ingresso, impediva ai cinesi già presenti negli Stati Uniti di ottenere la cittadinanza. Poi ci fu il vaiolo che, tra il 1870 e il 1880, si diffuse nella città di San Francisco, e i residenti cinesi vennero utilizzati a lungo come capri espiatori perché considerati una “razza inferiore”. Situazione analoga a quella di inizio Novecento, quando venne rilevato un caso di peste bubbonica nel quartiere di Chinatown. E rieccoci oggi con il proliferare del Covid.

Chloé Zhao è la prima regista asiatica a vincere per la Miglior regia. Mai come quest’anno può dirsi un traguardo.

Quello che si è andato consolidando nel corso della storia si chiama “mito della minoranza”, introdotto per la prima volta nel 1966 dal sociologo William Peterson sul New York Times Magazine. Tale mito venne utilizzato a lungo per descrivere gli asiatici americani (in particolare i giapponesi) che, nonostante l’emarginazione, hanno raggiunto il successo negli Stati Uniti. Un successo attribuito all’obbedienza e alla loro capacità di superare “l’apatia autolesionista o odio per se stessi” che invece altre minoranze razziali, in primis i neri americani, non hanno. Nel suo saggio intitolato Success Story: Japanese American Style, Peterson scrisse che le culture giapponesi hanno una forte etica del lavoro e valori familiari che, di conseguenza, le elevano al di sopra delle «minoranze problematiche». Un sistema di gerarchizzazione delle razze che ha finito per dividere le minoranze, cancellando la possibilità che ognuno viva il razzismo in forme differenti. Negli anni ’60-’80, si diffuse un vero e proprio stereotipo a causa del quale coloro che cercavano di opporsi, non riuscivano a ottenere un sostegno sufficiente per combatterlo, proprio per le sue cosiddette connotazioni “positive”. Ciò portò molti, anche all’interno della comunità asiatica americana dell’epoca, a vederlo come un’etichetta gradita in contrasto con anni di stereotipi negativi, o come uno stereotipo eufemistico che non era altro che un semplice fastidio. Mentre sono tanti i critici a ritenere che ci siano molteplici aspetti negativi quanti sono quelli positivi, e che nessuno stereotipo dovrebbe essere considerato “buono”, indipendentemente da quanto sia “positivo”, solo per le conseguenze sociali e psicologiche che determina. Andrew Yang, candidato alle primarie democratiche del 2020, in un editoriale sul Washington Post, spiegava come gli asiatici americani debbano dimostrare la loro american-ness, (“americanità”) comportandosi da buoni cittadini: “Noi, asiatici americani, dobbiamo abbracciare e mostrare la nostra americanità in modi che non abbiamo mai provato prima. Dobbiamo farci avanti, aiutare i nostri vicini, votare rosso bianco e blu, fare volontariato, fondare organizzazioni di supporto, e fare qualsiasi cosa per accelerare e anticipare la fine di questa crisi. Dobbiamo dimostrare senza ombra di dubbio che siamo americani pronti a fare la loro parte in questo momento del bisogno”. Ecco perché nella tragedia di Atlanta, sin dal principio, la comunità asiatica americana ci ha letto l’ennesimo atto di violenza.

Sottolineare che le vittime siano principalmente le donne non è una sorpresa. Da sempre sessualizzate e ridotte ad oggetto di manipolazione, le asiatiche sono un “target” per gli attacchi misogino-razzisti. «Essere una donna asiatica in America significa che non puoi essere semplicemente quello che sei: un essere umano pienamente autorizzato», ma «uno schermo vuoto su cui gli altri proiettano le loro storie, specialmente, troppo spesso, le loro fantasie sessualizzate – perché la cultura americana ha presentato a lungo le donne asiatiche come oggetti sessualizzati per il godimento maschile bianco. Ciò accadde quando le donne immigrate cinesi arrivarono per la prima volta negli Stati Uniti nel 19° secolo, rapite o acquistate per la vendita in Cina e spedite in America, o indotte con l’inganno nella servitù sessuale quando i lavori domestici che erano stati promessi scomparivano e l’unico lavoro che potevano ottenere era fare sesso con uomini per soldi», ha scritto Jennifer Ho, professoressa di studi asiatico-americani all’Università del Colorado Boulder, lo scorso 18 marzo, in un articolo su CNN. Tormenti descritti e stilati in cui la Ho rivela ciò che una donna asiatica prova in quella che «fino a poco tempo fa, ho chiamato casa per quasi 20 anni». La Ho spiega come lavorare in un centro massaggi per un’asiatica significhi sapere di essere una prostituta e non quello che sei: «un essere umano degno di dignità e rispetto come ogni altra persona»; essere donna asiatica vuol dire avere problemi finanziari, sopportare gli abusi dei clienti perché «in America il cliente ha sempre ragione, soprattutto quando quel cliente è un uomo». Vuol dire «essere un oggetto, non un soggetto. Non essere né nero né bianco e quindi visto come un bianco onorario, il che in pratica trasmette una falsa convinzione secondo la quale non sei soggetto alla supremazia bianca; [vuol dire] essere invisibile, tranne quando sei stato ucciso da un uomo bianco che afferma che non è colpa sua, ma della sua dipendenza. Significa scomparire ulteriormente: essere una delle sei donne uccise in quello che la gente non chiama nemmeno un crimine di matrice razziale». E quando alla fine si chiede «Cosa possiamo fare? Cosa sai fare?» la risposta è: «Tratta le donne asiatiche americane per quello che sono invece degli stereotipi e delle fantasie sessuali razzializzate che sono state ritratte per troppo tempo. Siamo esseri umani pienamente autorizzati – proprio come voi – che esigono e meritano rispetto e dignità mentre viviamo le nostre vite».

È da testimonianze come queste che cambia la visione del mondo. A partire dalla notizia che vede Chloè Zhao come prima asiatica, e seconda donna in assoluto, a vincere un Oscar per la miglior regia del film “Nomadland”. Personalmente non sono asiatica eppure da (giovane) donna mi sento soddisfatta. Perché traguardi come questi si trascinano dietro risultati importanti, dal valore non soltanto simbolico: la regista cinese “prestata” agli Usa, che prima del suo exploit era sconosciuta ai più, nonostante il suo precedente lavoro, The Rider – il sogno di un cowboy, fosse stato presentato a Cannes e avesse ottenuto l’apprezzamento della critica, ha raggiunto un risultato prima di tutto storico perché da ben 37 anni nella categoria dedicata ai Miglior registi mancava il nome di una donna. Assenti anche semplicemente dalle nomination, fatta eccezione per Kathryn Bigelow e Ava DuVernay, a vincere il premio nell’ormai lontano 1984 era stata Barbra Streisand, regista, attrice e sceneggiatrice dell’apprezzatissimo Yentl.

“Ho pensato parecchio ultimamente a come si fa ad andare avanti quando le cose si fanno dure – ha raccontato la Zhao nel ricevere il premio, collegata in streaming – Quando ero piccola, in Cina, con mio papà recitavamo a memoria delle poesie classiche cinesi completando i versi l’uno dell’altra. Uno di questi diceva che le persone alla nascita sono tutte buone. Questa lezione ha avuto un grande impatto su di me che continua ancora adesso. Ed è per questo che dedico il premio a tutti quelli che hanno il coraggio di tener fede alla bontà che hanno dentro sé stessi e a quella che vedono negli altri”. Così, in sneakers e treccine, ha ritirato il premio con la commozione di chi sa di aver scritto la storia, auspicandosi che sia solo da apripista per tutte quelle registe di nicchia che potrebbero, in un futuro non troppo lontano, ambire alla statuetta monopolizzata da ormai troppi anni da nomi “al maschile”. Le motivazioni di questo fenomeno sono tante e complesse, e non mettono in dubbio la meritevolezza dei premi assegnati nei decenni passati. Ma certamente la vittoria della Zaho non passa inosservata in quanto la Zaho è donna ed è asiatica. La stessa che, crescendo con il desiderio di trasferirsi in America, ha poi scoperto che «c’erano molte cose da imparare anche a Oriente».

Nata a Pechino e cresciuta tra Londra, Los Angeles e il Massachusetts, Chloè Zhao è il nome d’arte di Ting Zhao, o Zhao Ting, come vorrebbero in Cina. Il film è basato su tre anni di inchiesta on the road della giornalista Jessica Bruder, “Sopravvivere nell’America del ventunesimo secolo”. Un racconto commovente dedicato a chi, perduto il lavoro nella Grande recessione, ha lasciato tutto in cerca di un’alternativa. Un mondo lontano dalla “dittatura del dollaro”, con una straordinaria Frances McDormand nel ruolo di Fern: una sessantenne che ha perso il marito e non solo, rimasta con una vecchia giacca che le ricorda l’uomo della sua vita, e un malconcio furgone con cui decide di intraprendere un viaggio nel cuore dell’America, incontrando altri come lei in raduni. E preferendo una vita completamente diversa, dove i vasti spazi americani, le badlands, fossero la sua vera dimora. Nomdland è un film di resistenza e di umiltà, di consapevolezza e di accettazione. Il ritratto di Fern è quello di una società produttiva spinta oltre i limiti, che prova a cercare coesione tra i valori universali e ancestrali. Fern è la metafora degli Stati Uniti: un nuovo posto in cui stare, un nuovo posto da cui scappare, portando con sé la speranza di un nuovo futuro, dove solo la strada può essere chiamata “casa”. Perché sono i posti ad essere “semplicemente persone”. «See you down the road» si dicono i nomadi, che nel loro dizionario non includono la parola “addio”, perché la casa è la dimora dell’anima. Un’interpretazione che, per quanto smielata, descrive pienamente Nomadland. E non è un caso che, quando una ex studentessa chiede a Fern se sia una homeless, lei risponde che preferisce essere definita houseless. Ben diverso. Che il film debba piacere per forza non è detto. La vittoria della Zaho però ci piace. E tanto.

Francesca Perrotta