Tra gli autori contemporanei Philip Dick (1928 -1982) è stato sicuramente uno dei principali scrittori che nel secondo dopoguerra ha dato ampio spazio nella sua opera a temi, tipicamente postmoderni, come il confronto tra esseri umani e non umani, le creature soprannaturali, gli androidi e grande risalto alla storia e alla teologia cristiana.
Philip Dick, la fantascienza e il suo valore
Senza quasi mai allontanarsi dalla sua abitazione in California questo scrittore immaginò mondi alternativi e paralleli, ontologicamente riferiti alla fantascienza ma anche al nostro imminente mondo postmoderno e postcapitalistico.
“Non ho mai pensato che la fantascienza avesse minor valore che la letteratura alta” così si espresse Philip Dick riguardo alla letteratura di fantascienza, considerata nei primi anni in cui scriveva un genere “minore”. “Subito ho iniziato a sentire che la fantascienza era molto importante. C’era quell’aspetto misterioso dell’universo che poteva essere trattato attraverso di essa. Era un mondo metafisico”. I primi racconti di Philip Dick furono rifiutati da tutti gli editori; il primo successo editoriale arrivò con Roog, il cui personaggio è assillato da fantasmi interiori. Da lì inizia la lunga stagione letteraria dello scrittore americano, una quarantina di romanzi circa e innumerevoli racconti tutti pervasi da una fantascienza dalle ricadute nichilistiche e pessimistiche.
La letteratura e il cinema hanno in seguito amato Philip Dick. Molte sono le opere letterarie portate sul grande schermo; egli fu precursore di movimenti artistici come l’avantpop e il cyberpunk.
Philip Dick: una vita inquieta
Nei mondi di fantascienza descritti da Philip Dick viene decritta perfettamente quell’inquietante sensazione, estremamente moderna, di scoprire che tutte le nostre certezze sono costruite sul vuoto.
L’esistenza di Philip Dick era angosciata e attraversata da drammi personali. Egli scriveva capolavori ma la sua vita era l’opposto: soffriva di agorafobia, assumeva sostanze stupefacenti e soffriva di vari disturbi psichici.
“Io avevo una moglie molto costosa, bambini molto costosi, scrivevo come un matto e l’unica maniera per riuscire a farlo era prendere le anfetamine che mi ero fatto prescrivere. Buttavo giù sessanta pagine al giorno”.
La Svastica sul Sole
Tra le molteplici ossessioni di Philip Dick vi era quella di vivere un presente alternativo, non un’utopia o una distopia, ma un presente diverso da come è universalmente percepito.
La realtà percepita da Dick era una proiezione, un miraggio, oltre il quale vi era il vero dominatore, l’Impero Romano che avrebbe ordito una simulazione per illuderci che la Storia avesse avuto un processo lineare.
“La Svastica sul Sole”, pubblicato nel 1962, è una ucronia dove Dick racconta un mondo in cui la Seconda Guerra Mondiale è stata vinta dall’Asse, mentre gli sconfitti sono gli Alleati. Nell’ambito di una serie di divertenti vicissitudini viene ritrovato un romanzo dal titolo “La cavalletta non si alzerà più” dello scrittore Hawthorne Abendsen dove egli racconta una storia parallela al romanzo nella cui trama il Secondo conflitto mondiale è vinto dagli Alleati. Un’ucronia che rimanda al mondo reale. Ecco così che “La Svastica sul Sole” diventa un romanzo fatto di simboli, tracce e decodificazioni del mondo grazie all’idea di ‘libro-nel-libro’ di Abendsen sicuramente più vicina ai fatti che conosciamo ma con esiti comunque inquietanti.
Il messaggio
Il messaggio ultimo del romanzo di Dick può essere interpretato come un urlo contro il silenziamento sociale dominante; nel momento in cui egli si rende conto -attraverso il personaggio di Tagomi- che l’Impero Romano non è mai cessato e ci tiene prigionieri in questo miraggio percettivo (è un dubbio iperbolico cartesiano portato ad una ragionevolezza estrema) Dick perde ogni riferimento, risulta completamente sperduto. Questo senso di disorientamento è umano, è un naufragio che l’uomo vive quotidianamente quando comprende che i referenti culturali o socio-politici a cui si affidava sono fragili.
In questo senso Dick affida alla scrittura il suo senso di smarrimento, egli è ateo ed ha un vissuto difficile: creare storie di fantascienza non è per Dick il modo per dare risposte ad un’esistenza violenta ma l’espressione più adatta che gli consenta di decodificare il cosmo nell’ambito dei suoi parametri di valutazione.
“Strani tempi, quelli in cui viviamo. Possiamo viaggiare dovunque ci piace, anche sugli altri pianeti. Ma per che cosa? Per starcene seduti un giorno dopo l’altro, mentre il nostro morale e la nostra speranza ci abbandonano” (La Svastica sul Sole)