In Pieces of a Woman, i pezzi in frantumi non sono solo quelli di una donna ma di una famiglia intera, rimasta incompiuta nell’esatto momento della sua rivelazione. Candidato agli Oscar 2021, la prima opera interamente in inglese del regista ungherese Kornél Mundruczó, sgorga dalla penna della collega e moglie Kata Weber, che in quella sceneggiatura rintraccia, facendola riaffiorare, un’esperienza vissuta personalmente: il dolore della perdita di un figlio. A raccontarlo è Martha, una verissima Vanessa Kirby, premiata a Venezia come migliore attrice con la Coppa Volpi; e poi Shia LaBeouf, nei panni del compagno Sean, di fatto l’unico personaggio maschile, interpretato con l’intensità di chi è sull’orlo della transizione verso una nuova vita. L’acquisto di una monovolume, le foto dell’ecografia incorniciate in un quadro, la sistemazione della stanza che accoglierà il nascituro: tutto, dal principio, è in funzione al cambiamento per una coppia giovane che si muove tra i cantieri edili dei ponti di Boston e gli uffici dei palazzi più moderni. Lei è brillante, sentimentale, materna; lui è semplice, “ruvido”. Come direbbe Sean, è rozzo («Ecco, una parola per Scarabeo»), non tanto affine alla famiglia borghese di Martha, in particolare alla madre. Fragile ma dispotica. La coppia però è innamorata e in febbrile attesa della loro Yvette. E’ pronta ad accogliere con entusiasmo la genitorialità, quella che, in termini psicodinamici, è una parte profonda della personalità di ogni individuo, e che Pieces of a Woman ci fa percepire sulla pelle, trasportandoci immediatamente nella dimensione domestica. La stessa scelta per un parto voluto fortemente nella tranquillità e nel tepore dei propri spazi conosciuti. Dalla rottura delle acque in poi, la macchina da presa inizia a costruire i primi passi di un lungo piano sequenza che va avanti per circa mezzora. L’idea è quella di guardare una cosa nel momento esatto in cui avviene, senza tagli di montaggio, non ci sono salti temporali. La continuità immerge lo spettatore in una realtà in cui il cinema aderisce perfettamente al vero. Eppure non è tanto l’uso fluido della cinepresa a tenerci dentro, quanto i grugniti e le grida di Kirby, insieme all’incoraggiamento tenero di LaBeouf. La bravura non è solo mostrata ma gridata. Chi guarda ha l’arbitrarietà di attribuire il proprio significato alla scena ma allo stesso tempo l’unica scelta sembra quella di inoltrarsi visivamente e narrativamente in quel travaglio che porta Martha in una dimensione altra. E alla fine ti trovi a contorcerti insieme a lei, provando a trovare una posizione comoda che non ti faccia sentire lo stesso disagio. Prima fra le braccia di Sean. Poi nella vasca, dove l’intimità tocca il suo apice. Infine sul letto, quando è arrivato il momento di spingere sotto indicazioni dell’ostetrica, Eva: non quella che sarebbe dovuta essere presente, ma comunque lì. Rassicurante. Fino a quando qualcosa non va. Seguono spinte, dolore, spinte, dolore. Poi Schermo nero. Inizia un altro film.

“Pieces of a Woman” è reale perchè c’è tutto: nascita, morte, crisi e superamento

Scandito da date per ogni mese che passa imperturbabile, Pieces of a Woman ti mostra il lato oscuro del parto, quello a cui troppo spesso non siamo abituati perché inondati di immagini stereotipate di gioie in arrivo. A pochi passi dall’essere il classico film strappalacrime e a lieto fine, mostra nascita, morte, crisi e superamento insieme. Il tema centrale è il lutto, e il dolore ad esso riconnesso. Il tema della perdita di un figlio appena nato, così come dell’aborto spontaneo, oggi è ancora un tabù, costernato dallo stigma della vergogna. Eppure è quello il nocciolo del film. Pieces of a woman parla di maternità, affrontando però la questione complessa dei figli mai nati e tuttavia presenti nella vita dei genitori, che stravolgono con eguale intensità. Ognuno affronta il dolore a modo suo. In effetti il film lo fa vedere: dalla dissociazione alla ricaduta nei vizi, fino al tentativo di scappare per dimenticare il dolore. Quello di Martha, in particolare, traspare dal corpo di una madre non-madre, esibito con estrema veridicità, senza risparmiare quei dettagli così poco appealing di una donna che perde il latte materno macchiando i vestiti, o che indossa ingombranti slip post-parto sotto i jeans. Mentre combatte con un corpo trasformato dalla gravidanza con cui prova a fare amicizia, ma che si trascina dietro come un peso. Una verità spesso nascosta a chi la maternità vuole vederla solo come lo “zenit” della vita di una donna. Dall’altra parte, invece, c’è Sean, un uomo che in tutti i modi prova a recuperare la vitalità di un rapporto che lentamente si frantuma. Quando cerca aggressivamente di fare sesso con Martha si riesce quasi a sentire la rabbia mischiata al dolore per la consapevolezza che non riuscirà nel suo intento. E’ una scena così vera che ti mette incredibilmente a disagio. La furia che manifesta ti fa sentire un voyeur, e non in modo positivo. Eppure sei lì che oscilli tra il volerlo far smettere e il comprenderlo. Fino a quando scappa rassegnato, per andare a sfogarsi su altro.

In mezzo a loro la figura della madre di lei è costante, così come quello della famiglia costituita da sole donne. Pieces of a woman esplora infatti l’universo femminile, mostrando la forza del matriarcato, in una simbolica visione delle donne nella tripla veste di madre, figlia, sorella. Sopravvissuta all’Olocausto, Elizabeth è una matriarca che conserva la tempra e la caparbietà di essere figlia della guerra, abituata “ad alzare la testa” pur di rimanere in vita. Un gesto che tenta in tutti i modi di far compiere alla figlia, resa apatica da un dolore troppo forte per riuscire a manifestarsi. Fino a quando non riesce nel suo intento, quello cioè di convincerla a seguire la causa giudiziaria contro l’ostetrica. L’obiettivo è quello di trovare necessariamente un colpevole alla prematura morte della nipote, provando a circoscrivere una causa e una conseguente punizione. Una giustizia che possa farla sentir meglio. E che, con ogni probabilità, possa occultare quel senso di fallimento di cui invece Martha si sente accusata dalla madre stessa. Il senso di vergogna, quando si sperimenta il lutto perinatale, è comune. Perdere un figlio appena nato è un esperienza che trova spazio nella nostra cultura, anche se non se ne parla. L’assenza di riferimenti culturali chiari amplifica il senso di isolamento di chi attraversa questo tipo di dolore. Soprattutto quando si parla di un bambino nato morto, come spiegato da Claudia Ravaldi, psichiatra e psicoterapeuta, la tendenza è quella di considerare il lutto “poco grave”, perché decisamente troppo piccolo per essere paragonato ad altri tipi di perdite. Da qui prende forma il perché della maggiore difficoltà di riuscire ad elaborarlo, senza doversi giustificare o scusare. Senza dover dare spiegazioni. «Una donna su sei affronta quotidianamente una delle mille sfaccettature del lutto perinatale, mentre è impegnata a elaborare l’accaduto, a fare accertamenti, a rientrare al lavoro, a crescere altri figli, a fare la spesa. Gran parte dell’impegno quotidiano, almeno all’inizio, è rivolto a tenere a bada il lutto, a non concedergli troppo spazio – spiega Ravaldi – ‘La vita continua’, ci si sente dire. E all’inizio non si riesce a credere che ci sia qualcosa al di là del lutto». Esattamente come Martha che, con gli occhi spalancati e vuoti, se ne va in giro come un automa. Gli unici attimi in cui sembra stia provando qualcosa è quando il suo sguardo incrocia quello di altri bambini. Ma neanche in quei frangenti è davvero chiaro che cosa stia provando. La sua è una performance di recessione, più che di repressione, perché Martha continua a chiudersi in sé stessa, ad isolarsi, a rifiutare ogni input. Pieces of a Woman è per questo un film che appartiene alla donna sull’orlo del baratro. Una di quelle sotto-storie che solitamente non vengono narrate. Perché quella che va in scena è una storia reale, vissuta dal regista e dalla sceneggiatrice, e messa a servizio del pubblico attraverso l’arte, il cinema. Nella speranza di essere un’ispirazione. Per provare a dire che con il dolore si deve, si può convivere. Il film riposiziona, infatti, all’interno della narrazione una serie di oggetti che sono metafore di nascita e rinascita. La mela, ad esempio, simbolo biblico del peccato originale, qui assume un senso consolatorio. Attraverso l’odore e il sapore delle mele, Martha riattiva il ricordo e l’evocazione sensoriale del profumo della figlia, tenuta in braccio per pochi istanti. E attraverso la conservazione dei semi farà germogliare un enorme albero di frutto – e di vita – nel finale. Un modo per raccontare il processo di guarigione, oltre alla metafora di un ponte che si vede comparire all’inizio di ogni sequenza temporale e che, a poco a poco, cresce fino a diventare una struttura solida.

Pieces of a Woman intraprende la via della sofferenza, del dolore e degli aspetti negativi della vita per dare un segno di speranza. Perché la vita è anche questo, un viaggio nel tormento. Tante opere affrontano l’angoscia e la rinascita come opportunità di offrire messaggi, ma Pieces of a Woman mostra in senso reale quello che accade sotto il melodramma. Si vede l’impatto ma non la demolizione, nonostante il danno sia sempre lì. Si vede il lavoro di una donna che prova a star meglio, elaborando un trauma che, mostrato così, assume una valenza universale. Si vede il progresso verso una rinascita che conserva dentro sé stessa il dolore, facendone punto di forza. Per questo è un inno alla vita.

Francesca Perrotta