Il pinkwashing è un termine che sta ad indicare tutte quelle campagne pubblicitarie e strategie di marketing che fingono di dedicarsi a tematiche riguardanti le donne e che, invece, hanno come obiettivo un tornaconto economico o un ritorno d’immagine.
Che cos’è il pinkwashing?
Il pinkwashing si riferisce a una tecnica di marketing tutt’altro che genuina. L’intento è quello di sposare una causa vicina al femminismo per promuovere un prodotto, con lo scopo ultimo di catturare l’interesse dei consumatori.
Il primo esempio di pinkwashing di cui vogliamo parlare è la lotta contro il cancro. Molte aziende si professano dedite a questa causa, pronte a devolvere proventi in beneficienza. In realtà di frequente accade che siano proprio le aziende a trarre un guadagno, derivato dall’apparente coinvolgimento nella questione.
La parola “pinkwashing” nasce proprio da questo tema. Essa fu coniata negli anni 2000 dalla Breast Cancer Action che si occupava del progetto Think Before You Pink, a sostegno delle imprese nella lotta contro il cancro al seno per soli scopi economici. Oggi per pinkwashing si intendono tutte quelle azioni dei brand a favore delle cause sociali femministe che in realtà hanno come scopo un profitto.
Il fenomeno del “washing” è utilizzato anche in riferimento all’atteggiamento molto catchy – soprattutto di recente – delle aziende nei confronti della comunità LGBTQ+ : il rainbowashing.
Nella nostra società l’inclusività in quanto valore ha assunto un’accezione estremamente positiva, mentre per tantissime imprese rappresenta unicamente una scusa per vendere i propri prodotti. Si tratta quindi di strategie e profitti, non di reale coinvolgimento in una causa, che sia essa pink, rainbow o green.
Alcuni esempi famosi di pinkwashing
Le aziende sanno che la reputazione di un brand e dei suoi prodotti – quindi la predisposizione all’acquisto da parte dei consumatori più giovani – oggi si fonda sulla capacità di costruire una visione dei valori condivisa con il proprio target.
Per questo negli ultimi anni qualsiasi campagna pubblicitaria, video, immagine o cartellone hanno assunto i toni del rosa, verde o arcobaleno. A prescindere dal fatto che si creda nella causa o dall’intento di prestarvi aiuto. Semplicemente perché da tempo le questioni riguardanti le donne, la comunità LGBTQ+ e l’ambiente sono fatti di attualità.
Con Brave vogliamo riportarvi alcuni esempi famosi di pinkwashing. Il colosso H&M mentre sottopaga i suoi lavoratori in Bulgaria, Turchia, India e Cambogia e si affanna nella sovrapproduzione altamente inquinante del fast fashion, allo stesso tempo celebra nei suoi spot l’empowerment femminile, la diversità e l’importanza dell’ecologia.
Altrettanto fallimentare è stata la campagna Love your curves di Zara che da un lato vuole celebrare la body positivity, ma dall’altro assegna a due modelle – dalla fisicità simile e snella – il compito di farsi portavoci di un messaggio destinato a tutte le donne, che non si sentono rappresentate esclusivamente da una taglia 38.
Nel 2010, KFC – la famosa catena del pollo fritto – annunciò una partnership con Komen, un’importante associazione che si occupa di lotta contro il cancro al seno. Per l’occasione KFC tinse gli iconici secchielli di rosa, portando a termine una campagna da 4 milioni di dollari da devolvere all’associazione. Un risultato notevole, se non fosse che i soldi erano stati già devoluti dall’azienda prima della campagna. Tutto il ricavato della vendita dei secchielli rosa andò semplicemente ad accrescere le casse di KFC. I soldi erano realmente stati donati ma lo sarebbero stati a prescindere. L’iniziativa era stata solo un mezzo per ottenere visibilità e consensi.
Anche il mondo della finanza si è rivelato sensibile al fascino del pinkwashing, basta ricordare l’euforia con cui la Borsa ha accolto l’ingresso di Chiara Ferragni nel Consiglio di amministrazione di Tod’s, facendo schizzare alle stelle il titolo a Piazza Affari con un +14%.
Francesca Mazzini
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