L’abolizione della Legge Fornero è il cavallo di battaglia elettorale di diversi leader politici. Ma costerebbe tanto alle casse dello Stato e nessuno propone un vero rilancio del mercato del lavoro.
La riforma Fornero in breve
Nata per far fronte alla crisi economica, fa parte del decreto legge Salva Italia varato dal governo Monti. La norma impone a tutte le tipologie di lavoro il sistema di calcolo contributivo a scapito del più generoso retributivo. Praticamente la pensione non si fonda più sugli ultimi emolumenti percepiti dal lavoratore, ma sui versamenti effettuati durante tutta la carriera lavorativa. La legge Fornero non cade dal cielo, è stata l’accelerazione di un passaggio che precedenti riforme avevano previsto graduale. Contestualmente ha previsto un innalzamento dell’età pensionistica stabilendo nuovi requisiti di anzianità e/o anni di contributi, portando inoltre l’adeguamento all’aspettativa di vita da una base triennale a una biennale, poi corretta parzialmente con l’ultima legge di bilancio.
Il primo problema sorto all’indomani dell’approvazione e che ha avuto maggiore copertura mediatica è stato quello degli esodati. Decine di migliaia di lavoratori avevano sottoscritto accordi in cui si prevedeva il pensionamento anticipato rispetto ai requisiti. Con l’entrata in vigore della riforma queste persone si sono trovate in un girone dantesco: senza stipendio e al di fuori dell’età pensionabile. I successivi interventi legislativi hanno garantito scivoli e introdotto altre misure di sostegno che hanno risolto parzialmente la questione.
Quanto costerebbe cancellarla?
La risposta può darla il report 2017 sulle tendenze del sistema pensionistico elaborato dalla Ragioneria dello Stato, che evidenzia come l’incidenza della spesa pensionistica sia diminuita grazie alle riforme adottate (le precedenti a firma Maroni e Sacconi, rispettivamente nel 2004 e nel 2010). Ha anche messo in luce che un terzo dei risparmi per lo stato è legato “al pacchetto di misure previste con la riforma del 2011”. Questo perché la riforma Fornero realizza “una riduzione della spesa in rapporto al PIL che si protrae per circa 30 anni”. Partendo dal 2012 l’effetto di contenimento passa dallo 0,1% del 2012 all’1,4% del 2020, per poi decrescere e annullarsi intorno al 2045. Complessivamente, durante tutto l’arco di effetto, si sommano circa 21 punti percentuali. Nei prossimi 42 anni, la legge Fornero avrebbe un impatto di risparmio che si aggirerebbe intorno ai 280 miliardi di euro. Abolirla nella prossima legislatura comporterebbe un corso di circa 100 miliardi, pari a 20 miliardi l’anno in media nel quinquennio 2018-2023. Considerando che l’ultima legge di bilancio prevede investimenti sulla stessa cifra, significherebbe non investire un euro per i prossimi cinque anni.
Perché lo dicono
A questo punto lasciamo i numeri e il gioco con i soldi dei contribuenti. Come ha scritto Antonio Polito sul Corriere «I danari pubblici non sono oggetto di una promessa di cambiamento, di un progetto di società, di un’idea di sviluppo; ma vengono puntati su una specie di Mercante in Fiera in cui ogni partito propone a una categoria un voto di scambio». Tutto si basa su una legge elettorale fatta (consapevolmente o meno) per avere il mero effetto della conta, dell’esposizione e localizzazione delle forze in campo in vista di un nuovo giro sull’ottovolante delle urne. Le probabilità che qualcuno arrivi al 40% per governare sono ridotte al lumicino, i partiti lo sanno e fanno a gara a chi la spara più grossa. L’obiettivo è mostrare i muscoli in vista di una nuova tornata elettorale a stretto giro, così da presentare coalizioni con differenti rapporti di forza.
foto: ANSALo sanno bene nel centrosinistra. Partito Democratico e Liberi e Uguali non sembrano preoccupati della mancata coalizione per le politiche, mentre l’alleanza sul terreno delle regionali prosegue con meno problemi (anche se in Lombardia non c’è accordo su Gori) . Stesso discorso per il centrodestra: sia Berlusconi sia Salvini hanno messo il nome sul simbolo, con l’intento di contare i voti a urne chiuse. La situazione è chiara anche ai Cinquestelle, difatti mostrano concretezza nel consolidare le loro posizioni con la costruzione di una nuova pattuglia di parlamentari, mentre sono vacui nell’argomentare le loro idee di reddito e sviluppo economico.
Da nessuna forza politica è uscita una costruzione concreta, una pianificazione strategica dati (o soldi) alla mano. Nessuno sta lì a indicare mezzi, strumenti e azioni per raggiungere un obiettivo a medio-lungo termine. Non si sente una valutazione equilibrata che non accarezzi la pancia del paese. Si parla, timidamente, di rilancio del lavoro, ma senza un vero piano che non si riduca a incentivi determinati temporalmente. Di questa situazione non sono esenti da colpe i sindacati. In difesa degli occupati hanno alzato barricate contro le modifiche al mercato del lavoro in uscita. Facendo così hanno lasciato che l’entrata nel mondo del lavoro diventasse un far west.
Aboliamo tutto.
Nel nostro paese la campagna elettorale è senza soluzione di continuità. Che le elezioni si svolgano tra due anni o tra due mesi cambia poco. Oltre alla riforma Fornero, il 2018 si è aperto con tutti i principali competitor per Palazzo Chigi che fanno a gara ad abolire qualcosa. Che siano leggi, leggine, canoni o tasse universitarie, poco importa. L’importante è lanciare anatemi nei confronti di norme per colpire l’elettorato, sulla base che quella spesa sia ingiusta o iniqua. Ultim’ora: Salvini vuole abolire l’obbligo vaccinale, Berlusconi vuole cancellare il jobs act e Di Maio ha lanciato un sito dove chiunque può indicare quali leggi eliminare.
Mancano 53 giorni alle elezioni.
Marco Toti