Negli ultimi giorni sta spopolando sui social media una clip che vede come protagonista il Presidente Trump, intento a simulare un soffocamento gridando “I can’t breathe!”. Ma a cosa si riferiva veramente? Partendo da questo filmato, analizzeremo alcuni degli eventi più cupi della storia americana e proveremo a riflettere sull’influenza che il razzismo e la violenza della polizia hanno esercitato per anni sulla società statunitense.
Trump e il video incriminante
La clip che sta girando sui social è tratta da un video di tutt’altro genere: il filmato riporterebbe infatti un discorso di Trump rivolto a Michael Bloomberg e Amy Klobuchar, risalente allo scorso febbraio e quindi antecedente al drammatico omicidio di George Floyd. La frase utilizzata dal Presidente non è altro che un modo per ironizzare e prendere in giro la candidata democratica Klobuchar, la quale ha avuto difficoltà a respirare durante il Ninth Democratic debate di Las Vegas. E’ ormai palese che il popolo statunitense stia accusando la mancanza di un leader in grado di gestire con fermezza e compassione l’attuale crisi sociale, come evidenziato anche da numerose celebrità, tra cui Dwayne Johnson, che ha pubblicato uno splendido monologo a riguardo sul suo profilo Instagram. La strumentalizzazione del filmato potrebbe quindi essere solo uno dei tanti sintomi dell’insofferenza dei cittadini americani, che incolpano il proprio Presidente di non essere all’altezza della situazione.
Floyd e Garner: due vite spezzate
Tra le diverse interpretazioni della clip, c’è chi sostiene che la frase “I can’t breathe” fosse rivolta a George Floyd, mentre altri credevano che si riferisse alla morte di Eric Garner. Ciò che colpisce è che effettivamente entrambi hanno pronunciato le stesse parole prima di morire, anche se tra un omicidio e l’altro sono trascorsi ben 6 anni. Persino le circostanze in cui hanno perso la vita sono fin troppo simili: entrambi sono morti per soffocamento in seguito a un fermo della polizia, entrambi sono stati vittime di pregiudizi razziali perché afroamericani. Episodi come questi dimostrano che i provvedimenti presi finora per contrastare la police brutality, ovvero l’eccessivo uso della violenza da parte degli ufficiali di polizia, non sono sufficienti e che schemi del genere sono destinati a ripetersi, almeno finché l’intero sistema non subirà una radicale metamorfosi.
L’incidente dell’Algiers Motel: razzismo e violenza ingiustificata
Ma nel corso degli anni è cambiato qualcosa? Proviamo a confrontare la morte di George Floyd con l’episodio dell’Algiers Motel per tentare di rispondere a questa domanda. Prima di tutto è opportuno contestualizzare i due avvenimenti: George Floyd ha perso la vita nel 2020, nell’epoca della digitalizzazione e globalizzazione, in cui, grazie a internet e ai social media, le informazioni riescono a raggiungere ogni parte del mondo anche senza la mediazione di grandi testate giornalistiche. I tre ragazzi del motel di Detroit, invece, sono morti nel lontano 1967, anno della guerriglia di Detroit e delle retate violente nei ghetti dei neri, anno in cui ancora non erano presenti i fini strumenti informatici di cui oggi disponiamo. Ciò significa che se nel 2020 è difficile che un accadimento rimanga nell’ombra, cinquant’anni fa non era affatto complicato ostacolare la diffusione di una notizia.
Il potere dei media e dei social network
Non c’è quindi da stupirsi se oggi tutto il mondo (o quasi) si è schierato a favore della famiglia di Floyd e sta condividendo con loro una dura battaglia. Ma si può dire lo stesso dell’Algiers Motel, dei tre ragazzi uccisi e degli altri 9 feriti che ad oggi ancora non hanno ottenuto giustizia? Cosa sarebbe successo se l’incidente dell’Algiers Motel avesse ricevuto l’attenzione mediatica a cui è attualmente sottoposto il caso George Floyd? Anche Kathryn Bigelow e Mark Boal si sono posti la stessa domanda e hanno deciso di dare maggiore visibilità alla vicenda attraverso la realizzazione di Detroit, un film-inchiesta uscito nel 2017 e basato sui racconti dei testimoni e sulle ricerche dei giornalisti dell’epoca.
Manifestazioni e risultati
Probabilmente l’intera comunità degli afrodiscendenti e dei loro sostenitori avrebbe lottato in tutto il mondo, unendosi contro l’ingiustizia che ha permesso che queste vite fossero spezzate senza altra ragione se non il pregiudizio e la cieca violenza. Oggi la grande mobilitazione internazionale “Black Lives Matter” sta portando a risultati concreti: dall’esclusione di King durante le primarie nell’Iowa per razzismo alla formulazione dell’accusa di omicidio di secondo grado contro Chauvin. Risultati promettenti dopo giorni di manifestazioni, risultati che nel ’67 non sono stati raggiunti: i poliziotti responsabili dell’incidente dell’Algiers Motel sono stati portati in aula solo due anni dopo, giudicati da una giuria di soli bianchi e rilasciati con verdetto di non colpevolezza dopo aver trascorso una sola notte in carcere.
Un’occasione per farsi sentire
Il Black Lives Matter oggi non è soltanto una lotta per ottenere giustizia per George Floyd, ma è una vera e propria occasione per dare voce ai disagi delle minoranze, per cercare di ribellarsi a un sistema impermeabile al cambiamento. Sono molti i rappresentanti della comunità nera ad aver sostenuto che Floyd sia solo l’ultimo di centinaia di casi di violenza ingiustificata operata da chi avrebbe il dovere di tutelare e proteggere i cittadini, violenza mossa dal pregiudizio. Rispetto al passato però, possiamo concludere che ci sia stato un considerevole salto in avanti: oggi le minoranze non sono da sole, hanno il sostegno di tutti i cittadini del mondo e possiedono gli strumenti per poter dare maggiore risonanza alle proprie battaglie e rivendicazioni. Nonostante il passato e il presente della storia americana siano stati contraddistinti da violenza e razzismo, possiamo augurarci che proteste del genere contribuiscano alla costruzione di un futuro diverso, un futuro più equo e solidale in cui il razzismo non ha più spazio.
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