Nella stagione degli “indipendentismi” non poteva mancare la firma di uno stato che di “fratture sociali” se ne intende: l’Italia. Seppur quello organizzato dai vertici Lombardo-Veneti sia solo un referendum consultivo, ci aiuta comunque a capire la tendenza “separatista” del nuovo secolo. La fine dello stato nazione, il risveglio di identità sopite, ma soprattutto i possibili benefit economici, giustificano le “rivendicazioni sovrane”, legali o meno, di molteplici realtà regionali.
Il “separatismo” nostrano, come ben sappiamo, è rappresentato dall’atteggiamento quasi “irredentista” di due regioni nord-italiane: il Veneto e la Lombardia. Contestualizzando la questione, quindi, tracciando dovute differenze con le rivendicazioni Scozzesi, Irlandesi e Catalane (come tante altre), è doveroso non inscrivere il referendum italiano tra quelli meritevoli di considerazione internazionale.
Il 22 ottobre, infatti, il “Popolo” lombardo-veneto sarà chiamato a esprimere il proprio parere sulla possibilità di ottenere più autonomia dal Governo centrale. Questa consultazione rientra appieno tra i diritti di una qualsivoglia regione a statuto ordinario italiana. L’appiglio giuridico si trova nel terzo comma dell’artico 116 della Costituzione italiana. La norma costituzionale è figlia della riforma del titolo V voluta dal centro-Sinistra nel 2001, e permette, alle regioni che lo desiderassero, di intavolare delle trattative con la capitale riguardanti le “materie concorrenti” e quelle “trasferibili” nei rapporti tra Stato e Regione. Ciò che chiedono le regioni capitanate da Luca Zaia e Roberto Maroni è, in sintesi, una maggiore potestà legislativa e una più individuale gestione delle risorse.
Essendo questo un referendum consultivo non vincolerà in nessun modo il Governo a prendere in considerazione le richieste avanzate dalle due Regioni “ribelli”. Anche con un esito plebiscitario, quindi, la regione sarebbe in una posizione di svantaggio rispetto allo Stato centrale. Le materie legislative che vengono rivendicate da Lombardia e Veneto spaziano dal campo dell’economia e della finanza, a quello per la tutela dell’ambiente e i beni culturali, nonché a quello più rilevante del commercio con l’estero. In materia fiscale l’obiettivo primario è quello di appiattire il residuo fiscale, ovvero la somma che ogni regione deve versare a Roma per ottenere in cambio servizi sul territorio regionale. Secondo il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, questo può essere il primo passo verso una più netta indipendenza e una più “conveniente” emancipazione dallo Stato italiano, portando la sua regione a poter legiferare su due materie che spettano definitivamente allo stato: sicurezza e immigrazione.
La propaganda avviata dai padri del referendum attraverso lo slogan “La Lombardia diventerà ragione a statuto speciale” reca in sé il germe dell’ignoranza. Per convertire lo status di regione ordinaria con quello di regione a statuto speciale bisognerebbe, infatti, avviare il processo di revisione costituzionale (con tutte le complicazioni ad essa collegate). Appare chiaro, quindi, che si tratta di una strategia volta a creare un clima più positivo in vista dell’imminente voto.
Riguardo al voto nello specifico vi è da sottolineare una assoluta novità nelle modalità di espressione delle preferenze: il voto elettronico. Proprio nel lombardo-veneto esordirà la “democrazia 2.0”. Al “modico” costo di 23 milioni di euro, i nord italiani (?) si assicureranno il primato in questa nuova forma di partecipazione democratica. 24.000 tablet, infatti, sono stati acquistati dall’amministrazione per permettere ai cittadini lombardo-veneti” di esprimere la propria volontà. Per esprimere la propria preferenza non sarà richiesta tessera elettorale. Basterà presentare al “seggio” la sola carta di identità, trattandosi qui di un referendum consultivo non avente valenza nazionale.
William De Carlo