Seduto all’ingresso di Palazzo del Grillo. Due soli gradini a reggere il peso di colonne marmoree ramificate a tralci d’uva. O lo si trovava di spalle, rivolto verso una tela, nel salone settecentesco dove dipingeva. Una nuvola di fumo faceva da volta al soffitto affrescato; pareva strozzarlo, quando con una mano alzava la sigaretta, e con l’altra seguiva il pennello. Renato Guttuso ha il giallo dei tramonti rubati a Bagheria, nella sua vita intricata. Colpi di scena, eros, passione, antifascismo, comunismo, conversioni, aristocrazia, proletariato, muse (non una), prostitute, prelati, politici. Uno spettacolo sul finire degli anni ’80, che rapì il pubblico, tra le scenografie delle sue ammalianti pitture. Un ‘Gineceo‘ di presenze, per riprendere il nome del quadro più grande da lui realizzato. Un valzer ininterrotto tra sacro e profano. Più bella la sua vita o le sue opere d’arte? Entrambe inscindibili, di ‘guttusuniana’ bellezza.
Oramai aveva abbandonato il suo leggendario studio di Piazza Melozzo da Forlì, sempre a Roma. Al sesto piano, dove trovavano alloggio temporaneo anche gli artisti romani senza dimora. Tra gallerie d’arte e frequentazioni di ambienti altolocati, lo si poteva incontrare a “Il buco“, il ristorante di Via del Seminario, o in quello del quartiere Prati, “La barchetta“, dove portava Mimise Dotti sua moglie. Sette anni più di lui; s’incontrarono a casa della marchesa De Seta, e lui si offrì di accompagnarla in taxi a Palazzo Ruspoli, al termine della serata. Durante un temporale, lei entrando nel portone, fece cadere la chiave. Il pittore la raccolse, la mise in tasca, e fu il motivo per rivederla.
Dal Grillo a una tigre
A forma di mezza luna erano le due rampe di scale a Palazzo del Grillo. Il Foro di Traiano è il panorama che si scorge dai suoi affacci. Guttuso nel 1981 volle rappresentare nel dipinto “La visita della sera” il suo studio all’imbrunire. Ebbe una vera e propria visione di una tigre. Come un ospite che arriva in tutta la sua bellezza, mista a ferocia. Una premonizione, un lampo di genio che annunciava la prossima comparsa della donna felina, e di grazia fatale, Marta Marzotto. La incontrò nel luglio 1960, in attesa del terzo figlio e in compagnia del marito il conte Umberto. Il padrone di casa, un giornalista e mecenate di opere d’arte, mostra a Marta un olio intitolato “I Naufraghi“, di Guttuso, che il pittore volle dapprima regalargli. L’accento siciliano, in una voce profonda e vellutata, diceva: “Daglielo, ne rifarò un altro“. Ma pare che ella lo comprò a prezzo maggiorato, dopo la nascita del bambino, come dono per suo marito.
Non ci sarà bisogno di farne il nome: Marta sarà l’archetipo della bellezza di ogni suo quadro, in tutti gli schizzi. Il volto che prendeva forma, in maniera ossessiva, in ogni tavola, o litografia. E un didietro importante quanto un volto. Riconoscibile anche senza lineamenti, tra tavolozze, barattoli e le foto non proprio consone, che animavano le pareti di quella che sembrava una cappella sconsacrata: come un pube nero e selvaggio dal celebre dipinto di Courbet. Quella donna eroicamente matura, senza ritrosie, si ritroverà in ogni posa nei suoi quadri; audace, il trionfo di ogni sua nudità, modella, musa, amante, delirio. A Palazzo del Grillo vi era un recinto; un reticolato stretto e impervio tra i sentimenti, divideva il primo piano, regno ‘dell’amica’, dal secondo invalicabile, della moglie. Una scala a chiocciola avvicinava i due mondi, che la rivalità rese separati a vita.
Guttuso e l’emblema della carnalità
C’erano gli amici dello scopone pomeridiano, e quelli più reverenziali come monsignori, Giulio Andreotti, Alberto Moravia, che si alternano nel rococò e il barocco della casa. Una ‘corte dei miracoli’ attorno a lui. Gli portarono anche delle modelle, in realtà prostitute di professione, per il “Gineceo“, che si rifiutarono di posare perché si annoiavano. E poi Rocco Catalano, il pescatore di Scilla in Calabria, che Renato portò con se a Roma: non sapeva neppure l’italiano, ma era l’ombra fedele del pittore, gli preparava i colori, puliva pennelli, gli fece anche da modello in “Spes contro Spem“. Dipinto in cui Marta era raffigurata mentre spalancava il balcone sul mare di Palermo. L’amore non si ciba di fedeltà assoluta tra la contessa Marzotto e il divino Guttuso. Non era il sentimento diviso in due giurato nelle favole, ma durò vent’anni. Quella passione, difficile da descrivere, che non si può catalogare con qualche aggettivo, si nutriva anche di ardente gelosia. Così comparivano teste di scimmie su corpi umani nel quadro “Le menzogne” del 1979. Un’allusione, neanche troppo nascosta, a Lucio Magri, il politico comunista amante di Marta.
Resta in ogni carteggio, un cuore con dentro una firma, una sigla, ‘Ren‘, che il maestro usava solo per la sua Marta. Per lei aveva dipinto un paravento con tre ‘Marte’ che si infilano le calze, per il suo negozio di abiti: un punto d’incontro, una bohémien romana. Tra i frequentatori e clienti anche Sandro Penna il poeta, e Sophia Loren. Marta, la ex mondina figlia di un casellante, mandò a Renato una foto con tutti i sui figli, e si sentì rispondere per iscritto: “..Prova a guardare anche tu con una lente la foto, vedrai che son dietro di te, con il naso affondato nei tuoi capelli..“. E poi, un appuntamento di corsa al “Caffè Greco” per vederla, prima di affrancare un’altra lettera con questa intestazione: “Miele mio, sangue mio, respiro mio, tremito mio, lacrima mia, mio fiato..“. Sciascia, suo amico, scherzando diceva: “Guttuso, un uomo di facili costumi“.
Guttuso, l’amore è un chiaroscuro
Dalla sua Bagheria, ‘la villeggiatura dell’aristocrazia siciliana’, ha imparato a dipingere: guardando i carretti di Sicilia, istoriati di paladini, pitturati da un uomo mite, di bottega. Ma l’amore sembra essere ‘la tela’ della sua vita. Una fiaba d’amore moderna la sua, che si può ancora raccontare, perché mai passerà di moda. Un sentimento astratto, un falso d’autore, o un tratto incisivo. Tra il rosso delle bandiere, e il bianco puro di sante comunioni. In uno scritto in corsivo, sulla parete dove lavorava, importante come la plancia di una nave e adornata da una confusione di fogli appesi, spiccava una rima di Michelangelo: “Grato m’è ‘l sonno, e più l’esser di sasso, mentre che ‘l danno e la vergogna dura; non veder, non sentir m’è gran ventura; però non mi destar, deh, parla basso”.
Federica De Candia. Seguiteci Su MMI e Metropolitan cinema