Ricette culturali: Vedo Firenze, ascolto il Monni e muoio (felice) con un lampredotto in mano…

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Di Redazione Metropolitan

Vedo Firenze e poi muoio. Magari con un lampredotto in mano, non male…Già, questo è quello che mi succede sempre, anche se la vedo da una foto o attraverso un quadro o al solo sentirla nominare. Mi rendo conto che è patetico ma per me Firenze è stata una donna a lungo cercata e poi finalmente trovata andando così a unire tutti quei puntini che fin da bambino mi avevano fatto sognare sulla parola amore. Da ormai lontana dalla mia vita, il dolore si propaga ogni volta che la percepisco. La città offre tutto ciò che può desiderare un vagabondo come me, un amante della vita, amante come Carlo Monni. Tantissimi artisti, poeti, scultori e inventori hanno avuto l’onore di nascere a Firenze, di renderla grande e unica, come del resto gli attori degli ultimi 30 anni, ma il Monni è qualcosa di più terreno e “popolare”, qualcosa più vicino a Noi, come se lui stesso avesse rifiutato di raggiungere il cielo per stare sempre vicino ai suoi luoghi. Firenze, Monni e il…lampredotto!

Chi ha l’occasione di girare per i vicoli di Firenze, noterà la presenza dei numerosi chioschi detti “lampredottai” ovvero i venditori di lampredotti, dislocati per la città. Piatto povero della cucina fiorentina a base di uno dei quattro stomaci dei bovini, l’abomaso. Il nome lampredotto deriva da quello della lampreda, un vertebrato acquatico del gruppo degli Agnatha, la cui bocca ha una conformazione simile al disegno di questa trippa. Da qui nasce il nome “ironico” dato dal popolo al lampredotto, il cibo dei poveri che si contrapponeva al pesce raffinato e caro della nobiltà e del clero.

Povero e popolare come Carlo Monni, nato ai Campi di Bisenzio nel 1943, più poeta che attore, esordì nei spettacoli e feste paesane della sua zona. Qui incontrò Roberto Benigni con il quale strinse subito un sodalizio prima umano e poi artistico. Dal 1978 iniziò a esordire in film che gli diedero notorietà tra cui spicca Berlinguer ti voglio bene, storia incentrata sul personaggio di Mario Cioni (interpretato magistralmente da un giovanissimo Benigni) un venticinquenne del sottoproletariato toscano, che passa sempre il tempo con gli amici o al cinema a vedere film pornografici o per la campagna a parlare da solo…

Scrivendo, leggendo e parlando di solito vien fame e mangiando la discussione si fa sempre più piacevole, quindi preparatevi e rifornitevi dei seguenti ingredienti: un lampredotto intero, una cipolla, sedano e carota, due pomodori, sale, pepe e panini toscani come da tradizione. Tagliamo da subito a metà il sedano, la cipolla, il pomodoro e la carota. Poi mettiamo il tutto in una pentola con tre litri d’acqua per fare il brodo vegetale e portiamo ad ebollizione. Saliamo e immergiamo a questo punto il lampredotto intero, abbassiamo il fuoco, chiudiamo con un coperchio e aspettate circa un’ora.

“Averci insegnato a conoscere i venti e i loro effetti sull’animo” è uno dei tanti “comandamenti” di Carlo, infinito e imperfetto, uno che sapeva leggere bene le note della vita, quelle note che tutti Noi saltiamo perchè ci appaiono poco interessanti o inutili. Ma lui sapeva. Nel corso della sua carriera ebbe l’opportunità di lavorare per grandi registi, da Troisi a Monicelli, Ferreri e Citti, per finire con Brass e Virzì. Da ricordare ( chi non lo ha visto abbia la decenza umile di ripescarlo dal passato) il suo ruolo di “Vitellozzo”, interpretato nel film “Non ci resta che piangere” con Benigni e Troisi, piccola perla cinematografica immortale…

Immortale come il lampredotto che da secoli tinge la tradizione culinaria di Firenze. Verso fine cottura, prendete i panini e scaldateli. A fine cottura, estraete il lampredotto da suo brodo e sminuzzatelo in piccoli pezzetti. Con un mestolo, versate un pò di brodo sulla parte superiore del panino e farcitelo con il lampredotto. Arricchitelo con salsa verde a base di prezzemolo, capperi e acciughe. Il tutto accompagnato da un gottino di vino rosso per apprezzare meglio luci e ombre della culla del Rinascimento. 

Da apprezzare anche la riluttanza verso la televisione a dispetto di quell’arte che fa capo al “Qui e Ora” che è il teatro. E che grande attore di teatro che fu! Da ricordare “Fermi tutti questo è uno spettacolo” con Ceccherini e Paci. E come non ricordare l’amore per il verseggiare libero da tradizione toscana. Morto nel 2013 a 69 anni ha lasciato un vuoto che sa di dolore che difficilmente sarà riempito. Un paio di anni fa trovai in casa del mio zio un piccolo fascicoletto con sulla copertina una faccia disegnata di cui non potevo sbagliarmi nel riconoscerla, era il Monni. Erano presenti piccoli aneddoti e poesie, un piccolo tesoro ai miei occhi e tra una massima e l’altra di notevolissima fattura, mi rimase impressa una in particolare, senza mai capirne bene il motivo ma mi piaceva il “suono” che emanava e diceva questo: riconoscere la poesia e farla propria imprigionandola con il proprio dolore…E allora mi immagino in Piazza della Signoria, Carlo che beve il suo Gin Tonic e io da lontano che lo osservo con ammirazione, seduto e intento a mangiare il mio lampredotto, la grande cornice poetica di Firenze che ci circonda e che mai mollerà i miei sogni. Faccio mia questa immagine che mi fa pensare che tante cose mi hanno ferito ma solo una mi ha colpito veramente…

Giacomo Tridenti