I sogni sono pellicole di celluloide” e “Rifkin’s festival” ne esaudisce parecchi. La nuova commedia romantica di Woody Allen è realistica, seppur il suo personaggio principale cerchi in tutti i modi di evadere dal quotidiano per ritrovarsi in un mondo all’altezza delle sue aspettative, quello raccontato dai grandi registi del passato. Allen omaggia il cinema europeo senza troppi giri di parole e con immagini iconiche, dichiarando fin da subito il suo amore per il Neorealismo, in principio rivoluzionaria alternativa all’onnipresente lieto fine di Hollywood.

La firma di Woody Allen è inconfondibile. La trama è lineare e le azioni dei personaggi non hanno l’intento di sorprendere. E’ ancora una volta l’esistenzialismo a emergere dai discorsi intellettuali di Mort Rifkin (Wallace Shawn), ex insegnante universitario di cinema alle prese con un matrimonio consumato dal tempo. La sua è una voce narrante che affascina. Il suo modo di raccontarsi di fronte allo psicologo è rivelatore e la riflessione sugli eventi che hanno caratterizzato la sua esperienza a San Sebastián quasi catartica. L’uomo si rivede e si vede come ha sempre sognato di essere, protagonista di storie che vale la pena raccontare, perchè lontane dalla mediocrità di cui è piena la vita.

La figura di Mort ricorda quella di Woody Allen. Il personaggio è accusato di intellettualismo e pedanteria dalle persone che lo circondano. Tutti quei bei discorsi su Pasolini, Godard, Welles o la sua ambizione di scrivere un romanzo come fece Tolstoj, lo rendono l’eccezione di fronte ad una società che fa del politicamente adeguato l’unica virtù di cui riecheggiano i suoi discorsi. Critica che Mort muove a Philippe (Louis Garrel), regista francese la cui promozione del nuovo film è affidata a Sue (Gina Gershon), addetta all’ufficio stampa e moglie di Rifkin. I tre personaggi si ritrovano al Festival del cinema di San Sebastián ed è fin da subito evidente l’attrazione della donna per il giovane e bel regista. Lo spettatore non ha una visione privilegiata sull’attrazione fisica che si consuma tra i due, ma realizza banalmente insieme a Mort la fine di un matrimonio che si crogiola nell’abitudine.

Mort (Wallace Shawn), Sue (Gina Gershon) e Philippe (Louis Garrel) in "Rifkin's Festival" - Photo Credits: FilmPost.it
Mort (Wallace Shawn), Sue (Gina Gershon) e Philippe (Louis Garrel) in “Rifkin’s Festival” – Photo Credits: FilmPost.it

Rifkin comprende che il divorzio è dietro l’angolo e gli ipocondriaci dolori al petto da lui percepiti diventano segnale di un malessere interiore che ha diritto di esistere e di essere curato. Caso vuole che Tomas Lopez (Enrique Arce), cineasta presente al festival, consigli a Mort la dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya). Questo nuovo personaggio femminile appare all’uomo come una manna dal cielo fin dal primo momento. La donna è affascinante, sensibile, interessata ai problemi del suo paziente e innamorata del cinema e di New York proprio com’è Mort. Ha un solo difetto: è sposata con un pittore che rasenta tutti i cliché dell’artista sopra le righe e ama liberamente e contemporaneamente più donne perché incapace di incatenare la propria passione. Ma tra i tanti sogni che Mort ha, quello di conquistare Jo rappresenta il palliativo perfetto per una vita che vale la pena vivere solamente per evitare la morte.

In questa narrazione si intromettono brillantemente frammenti di storia del cinema in bianco a nero, di cui Mort e i suoi conoscenti diventano i protagonisti. Rappresentano tutta la passione che l’uomo e Allen hanno nei confronti della settima arte. Quando Rifkin chiude gli occhi nella sua camera d’albergo a San Sebastián viene subito trasportato in un mondo migliore. Incontra i suoi genitori tra la neve di “Quarto potere” di Orson Welles, vaga per i giardini termali della Roma di Pasolini in “8 1/2” e parla del suo futuro insieme a Jo mentre stanno tonando a Parigi in macchina proprio come avviene in “Un uomo, una donna” di Claude Lelouch”. Non manca poi l’omaggio a François Truffaut sulla strada di campagna battuta dalle biciclette di “Jules e Jim” del 1962. Woody Allen non si dimentica, poi, di Godard, mettendo sotto le lenzuola Mort e Sue, ricordando così i protagonisti di “Fino all’ultimo respiro”.

Ingmar Bergam rivive, invece, nel dialogo per eccellenza di “Persona”, interpretato questa volta da Sue e Jo e, ancora una volta, nel discorso dei cognati di Mort che attestano come la sua vita sia fallimentare, portando così la memoria dei cinefili a “Il posto delle fragole”. Non manca all’appello Galatée Films con la riproduzione della tavolata presente ne “L’angelo sterminatore” del 1962. Per finire ritorna il grande omaggio a Ingrid Bergman con la chiacchierata sulla spiaggia di San Sebastián tra Mort e La Morte. Una dichiarazione d’amore a “Il settimo sigillo” e un rimando a quel famoso monologo che già Boris fece in “Basta che funzioni”, commedia del 2009 scritta e diretta da Woody Allen.

In fin dei conti San Sebastián è la cornice reale di un festival che si consuma, invece, nella testa di Mort. “Rifkin’s Festival” è l’unica kermesse a cui partecipa lo spettatore e la vera dimensione in cui trionfano conoscenza e coscienza cinematografica. E se i sogni non dovessero avverarsi in questa vita senza senso, forse vale la pena ritornare a New York e continuare imperterriti a diffondere il verbo del grande cinema, come presumibilmente ha deciso di fare Mort (almeno così desidererebbe quell’intellettuale pedante di Woody Allen).

Mort (Wallace Shawn) e La Morte in "Rifkin's Festival" - Photo Credits: Stranger Than Cinema
Mort (Wallace Shawn) e La Morte in “Rifkin’s Festival” – Photo Credits: Stranger Than Cinema

Marta Millauro

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