Presentato al 75° Festival di Cannes, il secondo film di finzione del regista franco-cambogiano Davy Chou, “Ritorno a Seoul” è il racconto di un viaggio alla ricerca delle proprie origini. La protagonista è Freddie Benoit, interpretata dall’esordiente Park Ji-min, una venticinquenne nata nella Corea del Sud e adottata piccolissima da una famiglia francese. Per un imprevisto si ritrova a Seoul, restituita magistralmente dalla regia in una luce magnetica e seducente. Da qui inizia la ricerca delle sue origini.
La scrittura minimale e efficace del film, firmata dallo stesso regista ha preso avvio dalla vicenda di una sua giovane amica che si è ritrovata ad affrontare l’incontro con il suo padre biologico coreano all’età di ventitré anni, un incontro straziante che ha colpito profondamente Davy Chou. La forza del film sta proprio nella sua capacità di mettere in scena un dramma intimo e personale senza risultare retorico. “Ritorno a Seoul” commuove ma con intelligenza, attraverso una narrazione mai scontata, che non lascia prevedere un forzato lieto fine.
“Ritorno a Seoul”, un lento riconoscersi
Il ritmo del film gioca sull’ellissi temporali. Il vuoto esistenziale sentito da Freddie si rispecchia sugli anni che passano lasciando dietro di loro parole non dette, eventi di passaggio che non ci vengono raccontati. Le didascalie temporali (un anno dopo, cinque anni dopo), fanno da spartiacque dei tre atti del film, ognuno con un’identità diversa dall’altro. Quello di Freddie non è un viaggio di formazione, ma una accentazione della propria conquistata identità.
Con la sua forza vitale travolge ogni personaggio che incontra. Tutti si innamorano di lei, per essere poi abbandonati. La sua più grande difficoltà è stabilire connessioni emotive complesse, a partire dal rapporto da costruire con i genitori biologici, con il padre che la soffoca con le sue richieste di vicinanza e la madre sfuggente. Quello del regista è un lavoro di traduzione visiva di un universo emotivo femminile complesso. Tra l’altro il processo di traduzione è fondamentale nel film per il suo ruolo di mediatore linguistico tra il francese di Freddie e il coreano.
Lo spettatore è risucchiato nella voragine in cui l’eroina cerca di non cadere. Ha lo sguardo severo e estraniato sul nuovo mondo che la circonda, che le è più vicino di quanto possa immaginare. Con la sua giacca di pelle nera e il rossetto viola si aggira per le strade notturne della capitale coreana come un’aliena. Tra le sequenze più trascinanti del film c’è sicuramente quella del suo ballo elettrico e liberatorio in un locale notturno in cui si scioglie la tensione emotiva e si disperdono i silenzi generati dallo scontro culturale che la abita.
Seguici su Google News
Eleonora Ceccarelli