Leone d’oro come miglior film, alla mostra del cinema di Venezia. David di Donatello come miglior documentario. Gianfranco Rosi santificato con il suo Sacro GRA. Il film non da fretta. Un ritmo cadenzato, lento. Perché ci vuole tutta la calma per scoprire e assaporare Roma.
Quell’andatura a piccoli passi, quel gusto di osservare a rallentatore, che fa durare più a lungo il piacere della visione. Le storie raccontate, come quando si era intorno ad un fuoco nelle notti d’inverno. Dove, quel po’ di verità, si mescolava a fatti strabilianti.
Gra, centro di gravità permanente
Racconti di umanità, prima di tutto. Che gravitano attorno il Grande Raccordo Anulare di Roma. Punto focale, centro e nucleo del film. E anche nell’immaginario del romano, che prima o poi, farà i conti con questo vortice dantesco di suoni e richiami. Si narra di un botanico, Francesco, impegnato in una disinfestazione delle palme, dal micidiale parassita, punteruolo rosso.
Un’autentica missione, monitorare con meticolosità ogni pianta e il territorio. Dove la lotta all’insetto devastatore, rievoca metafore. Come la perseveranza per trovare un’oasi di pace, liberandosi dalle fameliche divoratrici. Con un salto di puro contrasto, tra eccentricità e vistosità, appare il principe Filippo Pellegrini. Che vive in una sontuosa abitazione in zona Boccea. Destinata all’affitto per convegni, set cinematografici, e lussuose nottate in bed and breakfast.
Sul Gra, personaggi da fiaba ma reali
Cesare, uno degli ultimi pescatori di anguille rimasti sul Tevere. Che come abitazione ha una grossa zattera in riva al fiume. Con vista sul GRA. Un nobile piemontese decaduto, Paolo, dalla lunga barba e dialettica curata. Abita uno dei tanti freddi e anonimi edifici destinati ad essere occupati da sfollati e sfrattati.
Roberto il barelliere, in servizio notte e giorno sull’ambulanza del 118. Dando soccorso sull’infinito intreccio dell’anello autostradale. Gli episodi sono nudi e crudi. Senza doppiatori o voci fuoricampo di presentazione. E non cadono mai nell’allusione, nell’ipocrisia. Il troppo è nulla. Mentre la semplicità è l’essenziale prezioso. È sobrietà.
Un film parla all’anima. Pure il Gra
Un film, avrà sempre un impatto personale con il suo pubblico. E ci sarà sempre una sproporzione tra il messaggio intimo che vuole comunicare, e la colonnina delle recensioni. Ognuno, avrà propri occhi e anima, da impiegare liberamente per catturarne il senso. Gianfranco Rosi, pone i suoi spettatori di fronte al silenzio. Che fa da sipario alle immagini.
E che lascia spazio sufficiente alla meditazione, alle riflessioni morali, alle tante sfumature profonde. Certi film si rivolgono a persone sensibili. Ad anime belle. Come un riflettore puntato, illuminano l’isolamento di certe creature, che vivono ai margini. All’estremo di un ambiente, sia esso dimenticato e misero, o elegante ed esclusivo. Per pochi.
Sacro Gra, quel titolo strano
Questo film documento, vuole conservare la forza dell’innocenza, che ha, magari, un mestiere che sta scomparendo o si sta dimenticando. Non è un paradosso, ma suggerisce anche il rimpianto. Per tutti quei modelli irregolari, che non si assomigliano, fuori dall’ordinario. Che hanno la grande fortuna di guardare con occhi diversi il mondo. Conoscendone una chiave interpretativa tutta loro.
C’è nel titolo stesso, l’esaltazione, la glorificazione di quel luogo, non luogo. Definirlo sacro, non sarà mai blasfemo. Mai fuori le righe. Perché un romano lo comprenderà subito il miracolo della consacrazione. Questa allusione ironica, azzeccata, al potere che ha il Raccordo di ispirare tutti i vocaboli possibili, nell’immaginario dell’uomo al volante. Ma che difficilmente lo battezzerà Sacro.
Il Gra che fa miracoli…
E quell’arguzia, fine maestria, di un titolo che fa assonanza con il più famoso e onnipotente Santo Gral. Oggetto leggendario cercato in ogni dove. I cui poteri donerebbero l’eternità, ma solo ai puri di cuore, destinati a raggiungerlo. Un velato riferimento al fine ultimo che si vuole cercare nel Raccordo.
Rosi ha passato più di due anni, in un piccolo furgone, sull’anello autostradale che circonda Roma, per filmare i più svariati avvenimenti. Scene di vita reali che animano un mondo sconosciuto. Una linea di transizione, un groviglio di strade che ti fanno sentire distaccato dal centro di Roma.
Tutte le strade non portano a Roma
Come se l’asfalto fosse una strada di non ritorno, di allontanamento, dal capitolino che si affaccia nel cuore del suo rione. Quasi una cacciata dell’Eden. Dove spartitraffico e rombo di motori assordanti, sono unica panacea per occhi e orecchie.
Dove manca un cinema, un negozio, per farti sentire meno straniero a casa tua. Una movenza circolare, hanno le scene del film. E sembrano portarti nella rotazione senza meta, delle strade intersecate del GRA. Senza una musica che allieta, una colonna sonora che può far sognare anche in mezzo ad un deserto.
Anche Fellini ha sognato sul Gra
“Come un anello di Saturno”, si legge in uno degli unici sottotitoli del documentario. Definizione felliniana. Mai visione di pianeti lontani, è stata così vicina a descrivere questa galassia o buco nero, esplorabile in auto. Le vecchie prostitute che abitano una roulotte, le ballerine di lap dance, sono creature non visibili a tutti. Quasi folletti.
Per vederli devi credere alla loro esistenza. Personaggi con una sceneggiatura sotterranea, soli. Quasi scambiabili per pazzi. Sullo sfondo dell’ippodromo delle Capannelle, Labaro, la borgata Fidene, Ciampino e i suoi aerei. Tutto percorribile con la sensazione di non doversi fermare mai. In moto perpetuo. In un viaggio contorto, in attesa che passi il mal di mare.
L’oro di Roma
Scherzeremo con i fanti, lasceremo stare anche questa sacrosanta autostrada urbana. Ma, vaglielo a dire a chi ha rischiato di sbagliare uscita e perdersi. Che neanche gli accordi strimpellati da Guzzanti al pianoforte, aiutano. Quando elenca, cantando disperato, le uscite numerate meglio di uno stradario.
Vaglielo a dire ad un romano. Solo lui potrà far pace con quell’angolo di mondo. Facendo del GRA, gioco, ironia e strada maestra di vita.
Federica De Candia
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