Da qualche anno a questa parte notiamo una decisa inversione di tendenza: dopo oltre 40 anni, il Festival non è più solo una possibilità, una finestra per alcuni artisti. Ma sta tornando a essere, per tutti, la fondamentale vetrina musicale di un tempo. Lo specchio di una scena giovane che ne beneficia oggi più che mai.
Dovessimo dare una data indicativa, sarebbe l’edizione del 2016: quella del secondo posto di Francesca Michielin in gara con Deborah Iurato, Lorenzo Fragola, Noemi, Rocco Hunt, Dear Jack, Annalisa, Arisa, Clementino. Tra le nuove proposte, future star del calibro di Ermal Meta e Francesco Gabbani. Idoli pop all’esordio come Irama, nuove voci stimolanti come quella di Chiara Dello Iacovo. Infine la reunion dei Bluvertigo e l’ultimo atto ufficiale festivaliero di Elio & le storie tese.
Certo, non per tutti fu vera gloria quell’anno: come sempre accade in kermesse di questo tipo, le luci della ribalta furono abbaglianti per alcuni mentre scaldarono appena altri. Ma non è questo il punto.
Da osservatori interessati, da addetti ai lavori, abbiamo notato come a partire da quell’edizione alcuni meccanismi abbiano iniziato a cambiare.
Fondamentale il proposito messo a punto di svecchiare, di dare un taglio progressivo ma netto con l’immagine del passato. Far sì che la gara potesse rappresentare davvero uno specchio dei tempi, dei generi musicali contemporanei. Dell’industria, del mainstream e delle nuove voci. Proprio com’era accaduto per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, fino almeno ai primi Settanta. Se voleva finalmente tornare a contare, Sanremo avrebbe dovuto scrollarsi di dosso tante, troppe mummie e dinosauri. Smettere di essere soltanto una chance – spesso l’unica – per certi artisti (ormai bolliti/anacronistici con quindici partecipazioni alle spalle) e tornare a rappresentare lo specchio canoro di una nazione.
In questo processo di cambiamento, di svecchiamento è stata determinante una scossa ancor più rivoluzionaria: la presenza nuova ed effettiva di una scena cui poter attingere a piene mani.
Come non accadeva da oltre vent’anni, tutta una serie di giovani artisti più o meno emergenti (cantautori, interpreti, gruppi) che non si sono limitati a bussare e affacciarsi timidamente, ma hanno saputo guadagnarsi il trono,
i posti più rilevanti al tavolo di re e regine del pop. Spesso e volentieri senza l’aiuto dei soliti talent show, comunque ribalte di cui tener conto.
Un pubblico nuovo li ha supportati e seguiti: sono i teenager di oggi, oppure i giovani “Under 30”. A milioni attraverso i social network, tramite YouTube, complice Spotify e le altre piattaforme di streaming a pagamento hanno fatto diventare divi i ragazzacci del rap, stelle gli interpreti e i cantautori pop. Come non accadeva da tanto tempo, palasport e arene da oltre 10mila posti sono andati completamente esauriti per tutte le date di una tournée. E gli stadi sono lì a due passi.
A ruba il merchandise, i poster, persino i dischi in vinile e in qualche caso i quasi antiquati Cd. Oltre ai direttori artistici delle Major e di Sanremo, anche i dirigenti delle più importanti trasmissioni televisive generaliste e nazional-popolari si sono accorti – diciamo a partire dal 2014 – di questa rivoluzione inarrestabile e hanno invitato in diretta i loro esponenti.
Lo stesso han fatto i grandi network radiofonici. Le serie tv targate Netflix (pensiamo alla recente “Baby”) hanno attinto a piene mani da quei repertori di fresca pubblicazione, riverbero delle stanze degli adolescenti italiani.
A questo punto, con una scena che gode di ottima salute e un pubblico che non fa che osannarla e premiarla ogni settimana, portando ai primi posti delle classifiche di vendita i loro beniamini, dev’essere stato quasi naturale per gli autori di Sanremo prendere una serie di decisioni.
Iniziare a salutare per sempre certi habitué e invertire in maniera pur graduale ma decisa la tendenza del Festival, portando anche lì – e soprattutto lì, visto che ci riferiamo alla principale kermesse della canzone italiana – la testimonianza di un Paese che cambia, che cresce e racconta nuove storie.
Dall’anno scorso è arrivato “Sanremo Young” a seguire la gara canora principale con un’ulteriore competizione legata agli “Under 18”, mentre il consueto appuntamento dicembrino con “Sanremo Giovani” porta in palmo di mano sempre più proposte commercialmente appetibili.
Diventa “cool” tornare dopo quasi 20 anni e un’intera carriera a sentirsi culturalmente lontani dal festival, vedi Venditti super ospite quest’anno.
Fermo restando che il serbatoio dei Talent Show continua a essere rilevante (anche se meno, a nostro avviso, rispetto a 5 o 10 anni fa, vuoi per la naturale consunzione del format), ci fa piacere constatare come la “cinque giorni” sanremese sia tornata a essere un appuntamento capace di far gola a tutti i discografici e manager, una vetrina reale e uno specchio su tanta musica fruita davvero nel Paese. Non soltanto un museo delle cere,
reparto geriatrico di vecchie glorie o personaggi imbarazzanti senza alcun seguito reale. Il cambio di passo, lo svecchiamento era necessario, e non lo stiamo notando soltanto sul palco dell’Ariston. Se voltassimo lo sguardo al concerto del Primo Maggio, in piazza San Giovanni a Roma, noteremmo il medesimo trend: quasi del tutto fuori la ‘vecchia guardia’, dentro le novità.
A questo punto, se anche dovessimo abituarci a considerare ‘veterana’ un’artista dalle idee stimolanti come Arisa o Malika Ayane, davvero poco male. E poi chissà, potrebbe essere solo questione di tempo: vedere in gara Tiziano Ferro e Cesare Cremonini, Tommaso Paradiso e Levante, Calcutta e i Maneskin, Ghali e Sfera, Dario Brunori (ospite quest’anno nella serata dei duetti) e Vasco Brondi. Senza più scuse, calcoli o strategie ormai perdenti. Perché tutti presterebbero la voce a un Sanremo futuribile, vivo e reale: non più sinonimo di ere geologiche ormai trascorse, ma gioco che conviene e giova davvero a tutti, non soltanto al vincitore.
Ariel Bertoldo