“Sono io la morte, e porto corona, io son di tutti voi signora e padrona…”. Non serve scomodare Angelo Branduardi per parlare di un tema quale il memento mori e il suo corrispettivo iconografico: la danza macabra. Ci basterà semplicemente citare Ingmar Bergman e il suo “Il settimo sigillo” per avere chiara la definizione di questo concetto.
Cos’è la ‘danza macabra’ ?
Tuttavia, dato che a noi piace complicarci la vita, in questa analisi faremo qualcosa di eccezionale (è il compleanno di Bergman, e che cavolo): metteremo a confronto due giganti del cinema, Bergman e Fellini, cercando di dimostrare una similitudine che ha il sapore di ispirazione. Andiamo con ordine. Cosa significa ‘danza macabra’ o ‘danza della morte’? L’etimologia sarebbe da ricondurre ad un enunciato francese ‘la danse de Macabré’ , riferito ai martiri Maccabei. Secondo questa ricostruzione etimologica, la frase indica una celebrazione ecclesiastica dedicata ai defunti. La Morte è raffigurata come uno scheletro danzante. (Famosissima l’iconografia di Pinzolo).
La rappresentazione doveva fungere da ‘memento mori’ per i peregrini e i visitatori che giungevano nei luoghi sacri, il monito –citando Massimo Troisi– era sibillino: “ricordati che devi morire!”. (Mò ce lo segniamo). Ingmar Bergman, nel riproporre un lungometraggio ambientato nel medioevo, diede una lucida visione di questo sentimento. Sfidare a scacchi la morte, infatti, è un escamotage che Antonius Block( il cavaliere) usa per esorcizzare una paura atavica che l’essere umano, da sempre, tenta di socnfiggere.
La domanda che noi ci facciamo è: come mai Ingmar Bergman annovera in tutti i suoi film un concetto così tabù? Non è il primo – né l’ultimo- ad aver raffigurato con la lente della macchina da presa la ‘signora dall’abito nero munita di falce’. Eppure, il suo tempo è quanto di più vicino a questo sentimento di perdizione e smarrimento corporeo. Come? Ricordiamoci che il film uscì nel 1957, anno che, in Italia, coincide con l’inizio dell’ ‘età dell’oro’. Il miracolo del boom economico italiano. In generale, quindi, si progrediva verso un globale benessere economico-sociale, la Svezia non era da meno. Boom economico e ‘memento mori’, cosa hanno in comune?
Due anni dopo “Il settimo sigillo“, Federico Fellini inizia le riprese del capolavoro “La dolce vita“. Nel film del 1960 la scissione identitaria, che contamina anche tutta la società e nella quale il protagonista è immerso, è generata dallo spectrum dell’eccitazione dell’euforia moderna. Euforia che si esplicita nell’esibizione di costumi costosi, stile di vita al limite del pomposo, accumulo di oggetti, di relazioni umane insignificanti e di cornice. Accumulo che Fellini ha espresso regalandoci la fumosa, chiassosa e affollata via Veneto felliniana.
La festa mondana, nelle scene iniziali del film, riappare, nel fluire della narrazione, come una regola, un rituale al quale ogni esponente facoltoso di Roma non può e non deve mancare. L’unico rito apparentemente ‘sacro’ e inviolabile dell’élite romana. A fare da contraltare a questa eccitazione di massa, il sentimento di Marcello (come anche quello di Steiner), che perde i contatti con la realtà. Quando non sappiamo chi siamo e abbiamo paura, tendiamo a circondarci di cose inutili e costose, che ci danno la parvenza di una serenità, che è solo apparente. La paura della morte è ancora lì, accatasta sotto mucchi di oggetti capitalistici e insignificanti.
Sui muri della terrazza Martini si mette in scena il grottesco trenino. In apertura di fila c’è Sylvia, che trascina dietro sé tutta l’élite romana. La memoria, però, ci riporta ad un altro capolavoro felliniano, dove questa ‘danza macabra’ viene enfatizzata con tutti i connotati ciclici della vita (in questo Fellini è un maestro). La sequenza finale di 8½: un lunghissima catena umana composta dagli spettri della mente di Guido Anselmi. Vi ricorda nulla? Guardate le tre figure qui sotto.
In tutti e tre i film avvertiamo la presenza funesta della morte. In tutti e tre i film, il protagonista, si lascia si immerge in una danza tribale all’apparenza giocosa, che ,però, ha un retrogusto amaro. Invitati a questo cotillon sono: esponenti dell’alta borghesia, poveracci, religiosi, cavalieri. Tutti. La Morte non fa distinzioni sociali.
Quindi: Fellini prese ispirazione dai film di Bergman?
Non abbiamo una prova concreta o un’intervista di Fellini che ci attesti queste nostre ipotesi. Tuttavia, le similitudini ci sono, e sono parecchie. La vicinanza cronologica tra le tre pellicole, il tema e la resa fotografica di questa danza; tutto ci porta a pensare che Fellini vide ‘Il settimo sigillo’, lo digerì e ne rielaborò concetti e immagini. I migliori, d’altronde, imparano sempre dai migliori.
Voi cosa ne pensate?
Seguici su MMI e Metropolitan cinema