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Sex worker cacciata di casa: il tabù del sesso

Ci sono tanti modi per perdere casa in Italia e uno tra questi è svolgere un lavoro che non piace al proprietario di casa che affitta, magari in nero, il locale. Non è un esempio casuale, ma quanto accaduto alla sex worker, creatrice di contenuti per Only Fans, CutieSara.

Essere cacciate di casa per il proprio lavoro è solo l’ennesimo esempio della discriminazione a cui le/i sex workers sono sottopostə nel contesto italiano. La motivazione dietro lo sfratto non è affatto il lavoro svolto, ma lo stigma della pu**ana. Si tratta di vergogna sociale, cioè del bagaglio che l’immagine della “prostituta” si porta dietro. È un bagaglio pesante, che contiene eterosessismo, maschilismo e patriarcato.

Il caso della sex worker sfrattata: un esempio di discriminazione

È stata Sara a raccontare quanto accaduto su Instagram. Senza preavviso alcuno, il proprietario della casa in affitto nella quale convive con il suo ragazzo le scrive. Il messaggio, nel quale le dice di lasciare l’abitazione, è corredato da una motivazione silenziosa: “Voi lo sapete il perché”. Non emerge subito il vero motivo. Sotto le insistenze della coppia il proprietario cerca di accampare una scusa sul possibile riconoscimento della struttura e del “buon” nome rovinato dal lavoro dei due.

Sara ha spiegato che dai video caricati sulla piattaforma non si può assolutamente capire dove si trova. “Il fatto è che la stanza è irriconoscibile perché l’ho interamente riarredata“. Il proprietario di casa ne è consapevole, ammette che è vero “è in incognito”, ma a dargli fastidio è proprio il fatto che in quella casa si faccia del sesso.

Viene da domandarsi se nel condominio sia solo la sex worker a fare questo “scandaloso” sesso o se i futuri coinquilini dovranno firmare un foglio di “non sesso” nelle mura domestiche. Il problema è chiaramente lo stigma per il lavoro sessuale, che è spesso considerato impuro, peccaminoso, sbagliato. L’antropologo Keith Hart ha spiegato come il peccato delle sex worker sia quello di prendere qualcosa dallo spazio privato, quello che solitamente non è pagato e monetizzarlo. È la fuoriuscita, l’esposizione del personale (il corpo) il problema.

Il padre padrone e il controllo dell’indipendenza

“Questa è casa mia e fino a quando ci abiti non puoi…” aggiungere una limitazione a piacimento. Il gioco del padre padrone esce fuori dal contesto famigliare ed è perpetuato anche all’esterno. Dove il potere di possessione esiste, in questo caso è la casa, esiste anche la volontà di comandare sull’indipendenza altrui. Senza contare il fattore “peccaminoso”, è sapere che altri fanno sesso nelle mura che con fatica si sono costruite o comprate il “problema”.

Così il pensiero del decoro dell’ambiente domestico si espande a ogni possedimento, fino a toccare gli angeli del focolare: le donne. Le donne, si sa, sono essere mitologici, che incarnano la purezza e il peccato allo stesso tempo. Sono sante, o devono apparire in questo modo, ma anche pu**ane e piacere agli uomini. Chissà come il proprietario di casa è arrivato a sapere che Sara era una creatrice di contenuti su Only Fans, che era una sex worker.

Sex worker o donna di casa

Sex worker o donna di casa, nero o bianco, A o B. In questa visione binaria della realtà non esiste una via di mezzo, non esiste il grigio, non esiste complessità. È in questa semplificazione estrema che lo stereotipico prende vita. Per le donne non è facile allontanarsi dallo stereotipo del genere femminile. Magari si è libere, ma qualcuno guarderà sempre a quell’indipendenza con sospetto.

Ogni discostamento dall’immagine mitologica della donna (purezza, maternità, calore) non è una possibilità da percorrere, ma una deviazione. Così tutto ciò che è diverso è sbagliato, perché lontano da una presunta norma, dall’originale “donna di altri tempi”. Non ci sono vie di mezzo: la donna che vende sesso è peccatrice. E di conseguenza chi la ospita (anche se Sara pagava un affitto) è complice.

Lo stigma della puttana: l’origine della paura

La pu**ana fa paura perché fa quello che gli dicono di non fare e solo le donne libere fanno davvero paura al sistema. La sociologa Giulia Selmi scrive che “La più grande invenzione del patriarcato è stata dividere le donne in donne perbene e donne permale“. Chi è la santa e chi la peccatrice non si decide certo caso per caso; no, è una struttura rigida. Se sei santa sei in una relazione monogama e se “vendi il tuo corpo” sei pu**ana. Punto. Ma le sex workers sono coloro che hanno rotto lo schema, le regole; che si sono date un nome come categoria, rivendicando l’uso indipendente e libero del proprio corpo.

E allora lo sfruttamento del corpo? Sex work is work, il lavoro sessuale è lavoro. Lo sfruttamento è un’altra cosa. Giulia Zollino, sex worker di professione, ha spiegato che “non si tratta di vendita del corpo, ma di vendita di un servizio che si fa anche (e non solo) con il corpo“. Il problema è che le zone utilizzate sono, il più delle volte, quelle considerate intime, private.

Quindi chi lavora liberamente con il proprio corpo, con il sostegno del partner, è visto come l’outsider, il deviante. La sex worker è la ribelle che va domata e l’unico modo che il padrone di casa aveva per farlo era cacciare Sara dal luogo di lavoro. La scusa era lo spazio privato violato, la realtà era invece la paura.

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Articolo di Giorgia Bonamoneta.

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