Scrittore e patriota italiano, Silvio Pellico nasce a Saluzzo, ora in provincia di Cuneo, il 25 giugno 1789.
Silvio Pellico: l’interesse per le lettere e le amicizie erudite
Dopo aver trascorso la sua giovinezza in Francia, di cui studia lingua e tradizioni, l’ancora ventenne Silvio Pellico torna dalla sua famiglia a Milano nel 1809. Prima professore di francese del Collegio Militare degli Orfani e poi precettore presso alcune famiglie aristocratiche, inizia ad appassionarsi alle lettere. Lo studioso comincia, così, a frequentare le cerchie culturali milanesi, tanto da stringere legami con alcuni degli scrittori più eminenti dell’epoca. In particolare, è significativo il rapporto con Ugo Foscolo, il quale riconosce subito il potenziale artistico di Pellico, dalle sue prime opere.
A questo primo decennio del 1800, risalgono le prime tragedie in versi di impianto classico: Laodamia (1813) ed Eufemio di Messina; molto apprezzata è, poi, la Francesca da Rimini. In quegli anni, Pellico entra a far parte di una cerchia culturale composta da grandi intellettuali, come Friedrich von Schlegel, Federico Confalonieri e Giovanni Berchet. Questi sviluppano idee tendenzialmente risorgimentali, rivolte alla possibilità di indipendenza nazionale. Tali contatti porteranno ben presto lo scrittore a doversi confrontare con le autorità austriache, intente ad eludere ogni forma di ribellione.
L’arresto: l’angosciosa esperienza e la riflessione spirituale
Intercettate, infatti, alcune lettere che lo stesso Silvio Pellico scambiava con Piero Maroncelli, gli austriaci decidono di arrestare i due intellettuali nel 1820, con l’accusa di carboneria. Lo scrittore, così, è mandato prima nel carcere de “I Piombi” di Venezia e, in un secondo momento, in quello asburgico dello “Spielberg”. Qui l’autore vivrà un periodo di forte solitudine e sofferenza, che lo porteranno alla riscoperta della fede.
Silvio Pellico e “Le mie prigioni”: i dieci anni di reclusione
L’esperienza vissuta nelle carceri, con l’accusa di ostacolare il potere asburgico, portò, tuttavia, alla stesura dell’opera che rese celebre Pellico: “Le prigioni”. In esse, che prendono avvio proprio dal 13 ottobre 1820 (giorno dell’arresto) e si concludono il 17 settembre 1830 (giorno della liberazione dell’autore), lo scrittore elabora i sentimenti, i fatti e i traumi vissuti durante il decennio di reclusione.
“Le mie prigioni”: la necessità di dare spazio a intime riflessioni
Benché Pellico fosse dapprima un patriota, un uomo che si era battuto per la libertà, l’opera con cui oggi più lo si ricorda è un componimento in cui chiaramente ha voluto accantonare gli ideali politici. E’ una premessa che egli stesso fa nell’incipit del primo capitolo:
Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro.
Ciò di cui l’autore vuole occuparsi ora è il racconto, personalissimo, del proprio vissuto tra le carceri di Venezia e della Moravia. Un periodo della sua vita trasformatosi in vero e proprio incubo. L’unico modo che Pellico riconosce come ancora di salvezza è lo scrivere, il comporre poesia: solo così sarebbe rimasto aggrappato alla vita.
Il calore umano e il ritorno a Dio
Nel corso della lettura è, tuttavia, possibile individuare aspetti per certi versi positivi dell’esperienza dello scrittore. Sebbene, infatti, la disperazione potesse il più delle volte prendere il sopravvento, Pellico riesce a confortarsi nel calore umano: durante gli anni di prigionia conosce persone che riuscirà ad imprimere dolcemente nei suoi ricordi e che riesce a descrivere con chiarezza nelle sue pagine.
Un altro punto fermo di questa fase dell’autore è la riflessione sulla propria vita e spiritualità: emerge, dunque, un forte e necessario dialogo interiore, per porre fine al silenzio assordante della cella. Maturano, dunque, pensieri sulla vita ormai perduta, sul significato dell’uomo e di Dio stesso.
In conclusione, Silvio Pellico compone “Le prigioni” nel 1831, dopo un anno dalla sua scarcerazione. Da subito, ottiene un successo incredibile e a nulla è valso il tentativo di censura: di fatto il testo è completamente apolitico. Tuttavia, la sua lettura, l’immedesimarsi in sofferenze ingiustamente inflitte, non fecero che portare il lettore ottocentesco a sviluppare un pensiero critico nei confronti dell’Impero Austriaco. Cosa che, di lì a poco, avrebbe contribuito a scardinarne la solidità.
Martina Pipitone