Il caso del pandoro Balocco e le accuse a Chiara Ferragni sono solo la punta di un iceberg che ha colpito il mondo social. Si tratta di pratiche commerciale scorrette attraverso cui un azienda finge di darsi all’attivismo sociale cercando in realtà solo clienti e guadagno. Il fenomeno in questione si chiama social washing si verifica in diverse declinazioni come il pinkwashing e il raimbowashing.

Social Washing, il caso Balocco e l’etica come guadagno

Il fenomeno social washing e le pratiche commerciali scorrette, fonte ilfattoalimentare.it
Social washing, il caso Balocco, fonte ilfattoalimentare.it

Il social washing è uno fenomeno che si verifica quando una determinata azienda sfrutta con modalità ingannevoli pratiche di attivismo sociale, ad esempio per salute, diversità e inclusione, non per fini morali ma per scopi puramente commerciali. È una pratica che sta sempre di più prendendo piede in una società in cui i social sono ormai sviluppati e pensati per campagne commerciali e gli utenti seguono più facilmente brand legati ad iniziative sociali. Un esempio di questo è senza dubbio il famoso caso del pandoro gate che riguarda la nota influencer Chiara Ferragni.

Un caso, definito da Rossella Sobrero, fondatrice del Salone della Csr e dell’innovazione sociale, come riportato in un’intervista su Vita, un fatto in cui “è stato utilizzato in modo distorto un messaggio sociale per rafforzare ulteriormente la propria presenza sui social oltre che aumentare le proprie entrate”. Infatti coloro che hanno acquistato il pandoro griffato Ferragni credevano di partecipare ad una raccolta fondi destinati all’acquisto di un macchinario per la cura dei bambini affetti da osteosarcoma dell’Ospedale Santa Margherita di Torino ma invece lo scopo era, come è stato dimostrato, una mera pratica commerciale.

Il pinkwashing, il rainbowashing e le altre pratiche scorrette

Dal più generale social washing derivano altri due fenomeni legati a scorrette e ingannevoli pratiche commerciali. Il primo è il cosiddetto pinkwashing che riguarda le campagne di finto attivismo social messe in campo dalle aziende sul tema dalla parità di genere. Il nome pink si rifa al colore rosa divenuto simbolo del femminismo ed è quanto mai azzeccato per definire quelle ingannevoli e in congruenti campagne aziendali che si verificano, ad esempio, alla Festa della donna.

Un altro tema caro alle persone è senza dubbio l’universo del mondo Lgbt. Questo ha generato un altro fenomeno ingannevole denominato rainbowashing che deriva dalla parola inglese rainbow indicante l’arcobaleno come rimando ad uno dei simboli per eccellenza dell’universo Lgbt. Accanto ad esse ci sono altre pratiche scorrette come il wokewashing che sfrutta la diffusa ideologia woke e il greenwashig che invece si rifà a temi più ambientalisti. In tutti i casi il rischio per gli utenti, tra cui sopratutto i più giovani e i più esposti, è quello di essere manipolati da una comunicazione errata ed oscura di influencer senza scrupoli. Si tratta di, spiega la Sobrero, “personaggi famosi che sembrano battersi per una buona causa: in alcuni casi si tratta di esempi negativi di influactivism, parola inventata negli Stati Uniti per definire chi utilizza i social per rafforzare community numerose e sempre più attive”.

Come combattere il marketing ingannevole

Se le organizzazioni no profit, conclude la Sobrero, posso combatter il falso marketing ingannevole prendendo le distanze “da personaggi che grazie al “patrimonio” di follower rischiano di diventare punti di riferimento anche su temi sociali nonostante non abbiano il ruolo e le competenze per intervenire su argomenti spesso molto delicati”, anche le aziende che non vogliono sporcarci con pratiche commerciali scorrette posso fare qualcosa. In questi casi infatti può aiutare da un lato servirisi di un foundraiser che sappia individuare e realizzare corrette campagne di foundraising e dall’altro utilizzare una comunicazione chiara, trasparente ed efficace per i consumatori. Quest’ultimo punto è importante per dimostrare la coerenza delle proprie campagne social e l’effettivo impiego delle risorse raccolte a sfondo sociale.

Stefano Delle Cave

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