Stuprata da quelli che credeva quattro amici. Accusata dal suo stesso padre. Ha diciotto anni la ragazza che oggi denuncia, accompagnata dal fratello, di aver subìto violenza sessuale il 6 febbraio di quest’anno. Portata con la scusa di una festa in una casa della località Tre Fontane, la ragazza ha ballato e bevuto. Dopo essersi appartata con uno dei ragazzi sono arrivati gli altri che l’hanno violentata a turno mentre altri tre scherzavano e scattavano foto. Fin qui si configura un reato di violenza sessuale di gruppo. Ma cosa accade quando la giovane, riaccompagnata a casa dai suoi violentatori, racconta della violenza subita?
È solo l’orrore nell’orrore. Il giorno successivo alla violenza infatti, la ragazza si presenta presso la caserma dei Carabinieri. Riesce in quello che tante vittime non hanno la forza di fare e denuncia lo stupro subìto. «Io chiedevo aiuto – spiega la giovane – cercavo di divincolarmi ma mi temevano le braccia». Passano solo poche ore ed il padre della giovane contatta di nuovo le forze dell’ordine per difendere gli stupratori della figlia. «Mia figlia vi ha raccontato dei fatti non veri – ha raccontato l’uomo – era sotto l’effetto di sostanza alcoliche e quindi non era in grado di capire quanto accaduto».
Il padre della ragazza
L’orrore non finisce qui. Potrebbe forse essere stato minacciato dalle famiglie dei ragazzi o semplicemente potrebbe aver voluto che la figlia ritirasse la denuncia. Fatto sta che il padre della ragazza ha fatto molto di più. In seguito l’uomo ha infatti accompagnato in caserma i violentatori della figlia spiegando: «Questi sono dei bravi ragazzi, le ferite che mia figlia ha alle braccia sono dovute al fatto che i suoi amici tentavano di riportarla a casa, ma lei era ubriaca e faceva resistenza». La Procura è comunque andata avanti nelle indagini e nella giornata di giovedì 29 aprile ha arrestato i cugini Eros e Francesco Biondo, 23 e 24 anni, attualmente in carcere, e Giuseppe Titone e Dario Caltagirone, 20 e 21 anni, ai domiciliari. Per tutti l’accusa è di violenza sessuale di gruppo aggravata, mentre un minorenne è indagato a piede libero.
Victim blaiming
Se è difficile da sopportare il dolore per una violenza, diventa quasi impossibile tollerarne tre. Oltre alla violenza sessuale, la ragazza ha infatti dovuto subire il fatto che questa vicenda divenisse dominio pubblico. In ultimo ma non per importanza, arriva il dolore di essere additata come colpevole. Perché victim blaming o “biasimare la vittima” è proprio questo. Magari non la si addita direttamente ma si crea un ragionevole dubbio sulla sua integrità o moralità. Del resto tutto è sindacabile. Non ha dubitato di una festa senza altre invitate donne? Perché si è appartata con uno di quei ragazzi? Questo pensiero è pericoloso perché isola la vittima in un momento di estrema fragilità. La si fa sentire sporca, in errore; in breve, colpevole. Chi giudica sono sia uomini che donne.
E in Italia?
Sul fenomeno si basa, oltre alla vicenda della ragazza di Mazara, anche il recente caso del video di Beppe Grillo che difende il figlio Ciro e gli amici, giudicando la presunta vittima (le indagini sono ancora in corso) assolutamente consenziente. Purtroppo il fenomeno non è solo recente ma ha una lunga storia nel nostro Paese. In passato la colpevolizzazione della vittima era praticata anche dalle autorità. Nel 1999 la Corte di Cassazione negava uno stupro perché la vittima indossava un paio di jeans. Stando alla pronuncia giurisprudenziale, essendo dato di comune esperienza che non sia possibile sfilare i jeans «senza la fattiva collaborazione di chi li porta», venne ritenuto che tra i due ci fosse stato un rapporto consensuale. Tutto questo ha portato a quella “vittimizzazione secondaria”, in cui si infligge un ulteriore trauma alla vittima. La narrazione che i media italiani fanno dello stupro spesso ha contribuito a far perdere credibilità alla donna solo per sue libere scelte. Un paio di jeans non violenta, un violentatore sì.