Questo articolo non parlerà delle varie (sebbene numerose e atroci) forme di violenza, non comprende testimonianze. È un articolo che esprime l’indignazione di fronte ad alcune barriere sociali e mentali che impediscono il progresso e che tolgono alle donne uno dei diritti più fondamentali – quello della libertà e della sicurezza della propria persona.
Nella città di Paola, in Calabria, è stata inaugurata una nuova associazione – Artemisia Gentileschi. Fondata da due donne, un avvocato – la dott.ssa Rosangela Cassano, e una psicoterapeuta – la dott.ssa Simona Nigro, l’associazione neonata ha per vocazione l’assistenza giuridica e psicologica alle donne che subiscono qualsiasi forma di violenza, ma anche la prevenzione di tali situazioni attraverso una serie di appuntamenti.
Un atto simbolico? Assolutamente no. Uno potrebbe pensare che si tratti di un’ennesima iniziativa associativa per far vivere la città. Non è il caso, Artemisia Gentileschi non agisce sulle piazze ma nelle menti, nelle case e nei processi giuridici di chi chiede aiuto. Dato che esistono già tante strutture sociali, istituti e soprattutto la legge e i tribunali, una battaglia per la protezione delle donne potrebbe sembrare anacronistica nel 2017. Vedremo invece che questo attore locale è più che necessario a Paola, nell’Italia meridionale e in tutti i posti dove le istituzioni a volte non garantiscono la sicurezza a tutti i cittadini.
La televisione è un vettore di violenza. La manipolazione mediatica favorisce la trasformazione di patologie in prodotti commerciali. In effetti, uno dei canali sta diffondendo una specie di show televisivo su un criminale calabrese. Ogni giorno va in onda una nuova puntata, viene descritto in dettaglio come quest’uomo ha distrutto le vite delle sue vittime, i telespettatori possono vedere i luoghi dei suoi crimini. Detto così sembra una serie basata su uno scenario. In realtà lo scenario è una storia vera, tuttavia disgustosamente trasformata in divertimento pomeridiano per i telespettatori. Perché quale è il messaggio che diffonde la televisione in quel modo? Sicuramente un’effimera sensazione di paura, di stupore. Ma non è per niente pedagogico. Anzi, provoca la sofferenza indescrivibile delle vittime che si sentono tradite dai mass media (che a volte rivelano persino la loro identità senza chiedergli il permesso).
Il silenzio è un sì alla violenza di genere. Denunciare gli abusi è difficile, come è difficile descrivere le violenze subite. Serve tanto coraggio per rivolgersi a qualcuno e dare dei nomi. Ma denunciare è necessario. Perché è un atto altruista: se tutte le donne iniziassero a denunciare gli abusi domestici le cose potrebbero cambiare, perché invece di farne uno show televisivo le associazioni ne farebbero processi, condanne e educazione preventiva nelle scuole. Bisogna trovare un interlocutore affidabile (come l’associazione citata prima), esprimere i delitti, far applicare la legge e farne infine un messaggio pedagogico: i crimini vanno puniti. E le vittime vanno aiutate. Qui occorre aggiungere un’ultima cosa – pure i testimoni hanno un ruolo da svolgere, non devono rimanere muti perché anch’essi hanno sperimentato il delitto. Non parlarne è come ferire la vittima un’altra volta.
Il carcere non è un albergo. La storia vera popolarizzata dalla televisione è quella di una recidiva: il criminale aveva già maltrattato e ridotto in schiavitù altre donne. È stato arrestato e rilasciato. E ha ricominciato le sue atrocità. Perché è stato rilasciato? Il carcere non deve essere un albergo, ma un luogo di risanamento, di rieducazione. Se gli individui pericolosi per l’ordine pubblico vengono liberati, che senso hanno le garanzie legali di “libertà e sicurezza”? Inoltre, nel caso di violenze famigliari – come può sentirsi in sicurezza una donna aggredita dal congiunto che non viene arrestato? La vittima non avrà nessun sentimento di libertà e sicurezza fintantoché il suo aggressore non sarà condannato. Ecco dove intervengono le associazioni locali come Artemisia Gentileschi. Si inseriscono nei vuoti che separano il cittadino dalla legge, i crimini impuniti dalla condanna, le vittime dal conforto.
« Je me révolte, donc nous sommes » scriveva Albert Camus. La lotta alla violenza di genere inizia dall’individuo, ma dopo questa prima rivolta può estendersi all’insieme della società. Rendiamola migliore ognuno al nostro livello. Senza guardare passivamente la televisione.
Maria Popczyk