Andrej Tarkovskij, la sublimazione della settima arte

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Di Redazione Metropolitan

Andrej Tarkovskij non è un regista per tutti, lo sappiamo. Il suo stile è spesso stato considerato inarrivabile, sia per le tematiche trattate sia per l’estetica stessa che ha messo in scena. Parimenti, scrivere di lui, per qualsiasi giornalista, critico o semplice amatore, risulterà altrettanto complicato. Ciononostante, per celebrare quello che sarebbe stato il suo settantottesimo compleanno, ci cimenteremo nel ripercorrere la sua illustre carriera.

Tarkovskij
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Gli inizi

Nato il 4 aprile del 1932 a Zavraž’e, paese ai piedi degli Urali, da un affermato politico e da una poetessa, il giovane Andreij lavorò inizialmente come geologo nella taiga siberiana. Qui ritrovò quel contatto con il quieto scorrere della natura che caratterizzerà gran parte dei suoi film. La sua carriera ebbe natali simili a quella di un comune appassionato e poi apprendista che si cimenta con il mondo del cinema. Dapprima studente, poi direttore di cortometraggi – in particolare “Gli Uccisori” (“Ubijcy”), tratto da un racconto di Hemingway -, e, in seguito, di mediometraggi. Con “Non cadranno foglie stasera” (“Segodnja uvolnenija ne budet”), infatti, benché egli stesse raccontando una storia di stampo postbellico, diede sfoggio delle sue qualità mediante l’uso di quelle inquadrature prolungate che saranno tipiche negli anni a venire.

Tarkovskij
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Tarkovskij sbanca Venezia

Poiché gli anni Cinquanta e Sessanta furono da considerarsi come la rinascita del cinema europeo, il da poco trentenne Tarkovskij si impose subito al suo debutto in un lungometraggio. “L’Infanzia di Ivan” (“Ivanovo Detstvo”), si aggiudicò il Leone D’Oro al Festival di Venezia nel 1962 – pari merito con “Cronaca Familiare” di Valerio Zurlini -. L’opera, nonostante avesse ancora connotazioni belliche, mostrò al mondo – o meglio all’Europa – il talento del cineasta sovietico. Tuttavia, con l’uscita del successivo “Andrej Rublëv” (1966), furono proprio i connazionali a rigettarlo.

E anche Cannes

Da lì in poi, il regime comandato da Krusciov mostrò un forte senso di opposizione alla narrativa di Tarkovskij, principalmente perché “Andrej Rublëv“, rileggendo la figura dell’omonimo pittore quattrocentesco, si produsse in un’esaltazione della Russia imperiale che cozzava con il revisionismo comunista. Il lungometraggio, ritenuto uno dei suoi massimi capolavori, ebbe un successo clamoroso in tutta Europa, in particolare al festival di Cannes del 1969 dove ricevette il premio della critica.

Andrej Rublëv
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“Solaris” e il successo per i motivi più sbagliati

Fu il 1972 l’anno del successo internazionale di Tarkovskij. Con “Solaris“, infatti, il regista si impose nel panorama mondiale. L’opera venne descritta frettolosamente come la risposta sovietica a “2001, Odissea nello Spazio” (1968) di Stanley Kubrick, pertanto, nonostante il successo in fatto di numeri non riuscì ad eguagliare “Andrej Rublëv”, fece conoscere l’autore anche al di fuori dell’Europa per i motivi più sbagliati. Ancorché, bollare un’opera tanto complessa e metafisica in quel modo, non fece altro che minimizzare le qualità e le ambizioni narrative dell’autore agli occhi del pubblico generalista.

Tarkovskij
Solaris
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L’apogeo della poetica di Tarkovskij

Gli anni Settanta di Tarkovskij vissero tra alterne fortune, soprattutto per l’ostracismo del regime ora capitanato da Breznev. Tramite un diario che egli cominciò a scrivere in quel decennio, emerge che tra le sue aspirazioni figurava anche una riduzione cinematografica de “L’Idiota” di Dostoevskij, resagli impossibile dalle autorità russe, e abbandonata una volta esule negli anni Ottanta. “Lo Specchio” (1974), parimenti alle due opere precedenti, subì diverse censure in patria, e uno scarso riscontro presso il pubblico. E, parimenti alle due opere precedenti, “Lo Specchio”, ad oggi, è considerato uno dei film più rappresentativi del regista. La sua estetica, la sua tecnica e i suoi schemi raggiungono pressoché la perfezione stilistica, soprattutto per il lavoro di montaggio, con scelte parecchio oculate in merito alla regia e alla fotografia.

Lo Specchio
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Stalker

I lunghi silenzi, le riflessioni, le lente carrellate, e, in più, quella ingombrante presenza dell’acqua che scorre in svariate inquadrature, trovano il culmine della loro espressività in “Stalker” (1979). Il film, girato con permessi speciali forniti dal regime, è forse l’opera più visionaria ed enigmatica di Tarkovskij. La trasfigurazione dell’essenza stessa di trama tanto cara agli occidentali, qui raggiunge il suo acme.

Tarkovskij
Stalker
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L’approdo in Italia

Sempre più in aperta competizione con i gerarchi sovietici che gli preclusero la presentazione dell’opera in festival di tipo competitivo, Tarkovskij richiese un espatrio per collaborare con la Rai in Italia. Il regime, però trattenne la moglie e il figlio come garanzia del suo ritorno in URSS. Fu in questo periodo che nacque il breve sodalizio con Tonino Guerra, il quale collaborò alla stesura del copione di “Nostalghia“, lavorato a più riprese e uscito nel 1983.

Nostalghia

Il film – indubbiamente il più conosciuto e amato dagli italiani – è un altro gioiello denso di lirismo e significati, sempre caratterizzato dalla presenza dell’acqua, autentico fil rouge nelle pellicole dell’autore. Tuttavia, ad oggi, “Nostalghia” è considerata l’opera meno riuscita del regista. Molti critici, difatti, hanno criticato la fragilità della filosofia presentata dal matto Domenico, vicino alla “retorica del pazzo” su cui tanti intellettuali dibattevano in quel periodo (era da poco in vigore la legge Basaglia).

Nostalghia
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Tarkovskij lavora con Bergman

Il secondo soggiorno in Italia, condito da una collaborazione con Claudio Abbado, spinse Tarkovskij a esprimere pubblicamente il suo dissenso nei confronti dell’URSS, chiedendo asilo politico negli Stati Uniti. La notizia fece il giro del mondo, acuendo anche il successo di “Nostalghia” che si aggiudicò il premio della giuria al festival di Cannes del 1984. Nello stesso periodo, quello che potrebbe benissimo essere il suo padre spirituale, Ingmar Bergman, lo invitò in Svezia per girare “Sacrificio” (1986), ultimo suo lungometraggio. L’opera, classificabile tanto la summa degli schemi tarkovskiani quanto un omaggio concreto a Bergman, fece incetta di premi a Cannes e si attestò come il commiato perfetto dell’autore, da tempo malato di un cancro che lo uccise il 19 dicembre 1986.

Sacrificio
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La morte

Morto a Parigi, nella Nazione che – insieme all’Italia – plaudì maggiormente la poetica tarkovskiana, causò problematiche di tipo politico alla moglie Larissa anche dopo la morte. Infatti, benché la donna lo avesse seguito in Italia dal 1982, il figlio Andrej Jr., non riuscì a raggiungere il padre prima del 1986, bloccato in patria dalle autorità. Sebbene Gorbaciov avesse tentato una pacificazione negli ultimi anni, la moglie Larissa decise di far tumulare il marito nel cimitero ortodosso di Sainte-Geneviève-de-Bois, in Francia.

Esaltando il genio di Tarkovskij

Un autore geniale, immaginifico. I suoi film, intessuti della stessa intensità dei romanzi russi ai quali egli si rifaceva, sono spesso considerati come la massima espressione della settima arte. L’uso libero del tempo, stiracchiato e riavvolto a piacimento, le scelte in fase di montaggio e post-produzione, le inquadrature vicine a dipinti dove domina l’immagine statica e predominante, sono solo alcuni degli schemi che hanno caratterizzato il suo stile visionario. Un autore che ha fatto sue le peculiarità del cinema classico europeo, attingendo tanto dal citato Bergman quanto da altri cineasti riconducibili alle sperimentazioni degli anni Venti.

Tarkovskij
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Semplicemente inarrivabile

Regista insondabile, enigmatico, tanto poetico quanto brutale. Così lontano dalla Mecca del cinema tradizionale (Hollywood), al punto da rappresentarne un contraltare quasi perfetto. Tanto esteta quanto concreto, tanto pratico quanto filosofico. Un autore per cui non basterebbero milioni di righe. Semplicemente inarrivabile.

MANUEL DI MAGGIO

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