Se avessi un euro per ogni volta che Ryan Gosling ha interpretato uno stuntman avrei due euro. Non è tanto, ma è comunque strano averne più di uno. E dopo il serioso Drive di Nicolas Winding Refn, Ryan Gosling torna nei panni proprio di uno stunt molto più bonaccione e senza propensione a menare le mani. A parte gli scherzi, se si osserva la parabola attoriale di Gosling, si può facilmente notare come l’attore sembra aver trovato la sua dimensione. Una dimensione fatta di grandi blockbuster, di cinema-evento e di una forma contemporanea di divismo. Ma è una dimensione che non si prende mai troppo sul serio. Nonostante una parte di carriera più austera (fatta anche di rom-com poco riuscite), l’ultima parte sembra aver preso una direzione da Panem et circenses. Tutta la campagna Ken ne è la piena dimostrazione. I vari “I’m Ken”, “I’m literally Ryan Gosling” ne sono la prova. E lui sembra sguazzarne felicemente. E questo circolo ininterrotto continua la sua parabola anche in The Fall Guy, pellicola che tanto bene si inserisce nel “Gosling Cinematic Universe“, con una forte dialettica meta cinematografica che mostra quanto versatile riesca ad essere Ryan Gosling.
Questa dimensione, questa “comfort zone”, sembra averla trovata anche David Leitch, ex stuntmen all’esordio registico che decide di raccontare il suo, di mondo. Una troposfera praticamente dimenticata dalla stessa industria a cui Leitch vuole rendere giustizia. Al di là del tentativo nobile che di per sé andrebbe premiato, la pellicola riesce anche a narrare quel mondo abbastanza bene, attraverso una storia d’amore quanto mai strampalata ma funzionale tra Gosling e Emily Blunt, coppia dalla chimica straripante. La dialettica del film action vive anche attraverso le citazioni continue e la capacità estrema di rappresentazione dello stunt che Leitch ha innata. Ma tanta azione, purtroppo, non riesce ad essere supportata da una sceneggiatura che non sa osare, prendendosi qualche rischio o virata in più, mantenendo tutto, troppo, in superficie.
The Fall Guy: film nel film
La struttura narrativa di The Fall Guy è riconducibile ad una Screwball Comedy delle più classiche. Anzi, lo è proprio. C’è la comicità scanzonata, quella degli equivoci. C’è la chimica tra due attori giganti, che interpretano rispettivamente una controfigura stunt e un’operatrice di seconda unità. Sul set dell’ennesimo film action Hollywoodiano si innamorano, ma un incidente distrugge fisicamente e mentalmente il personaggio di Ryan Gosling, portandolo ad allontanarsi da quel mondo. Ma le seconde occasioni nella terra dei sogni a stelle e strisce non si esauriscono mai, così quando la possibilità di tornare in gioco diversi mesi dopo nel film fantascientifico diretto dalla stessa Jody (Emily Blunt). Sarà l’occasione per riavvicinarsi mentre si sventa un presento complotto malavitoso che vede coinvolto il protagonista del film (nel film), interpretato da Aaron Taylor-Johnson.
L’azione non smette quasi mai di essere presente. C’è quella finta, dei due film che vengono girati in un contesto di meta cinema perenne. E c’è quella non meta, quella della narrazione action che irrompe attraverso una comicità ben strutturata e mai cattiva. In The Fall Guy c’è la volontà di mostrare e prendere in giro lo stesso mondo da cui proviene, mostrandone il lato più scanzonato e burbero, lontano dalla patina forzatamente artistica di certi mondi. L’intento è quello di dar forza a tutto un lato nascosto di tecnici che mantengono in piedi la macchina produttiva statunitense, che senza di loro non esisterebbe. Ma, paradossalmente, il momento in cui il film funziona di più è proprio quando Emily Blunt e Ryan Gosling interagiscono, in una deliziosa ma mai portata avanti commedia romantica d’altri tempi. Anche se con qualche spiegone di troppo, sintomo di una scrittura che si poggia sull’idea che il pubblico di riferimento sia tutt’altro che attento. Ed è un peccato, perché con un cipiglio in più, il risultato sarebbe stato più che soddisfacente.
Messaggio
The Fall Guy tenta due operazioni in contemporanea. Una, come detto, è quella di mostrare il lato tecnico e dimenticato della macchina-cinema. L’altro è una diretta conseguenza del primo. Si tenta di sensibilizzare, attraverso questa enorme lettera d’amore, sui giusti riconoscimenti dovuti alla categoria degli stuntman. Non è un caso che anche all’interno del film vengano citati gli Oscar e l’Academy. Infatti, The Fall Guy è un’enorme trovata per smuovere e dare peso ad una categoria che rende possibile tanto (ma tanto) cinema americano. Ma in fondo è giusto così. Che sia politico, sociale, culturale o, come in questo caso, industriale, l’importante è che il cinema esprima un messaggio. Se il cinema smette di parlare, smette di vivere. E va bene anche se lo fa attraverso esplosioni, salti con le moto da cross o giri in elicottero. Il detto decisamente non vero del “bene o male non importa, purché se ne parli” nel caso di The Fall Guy non potrebbe essere più vero. Ed è un dato assolutamente lodabile ed apprezzabile.
Alessandro Libianchi
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