“The Walking Dead” è giunto al suo sudato ma meritato epilogo con il suo ultimo volume, “Riposa in pace”. Cosa ci ha lasciato Robert Kirkman con la conclusione della sua epopea a tema zombie?
Era l’ormai lontano 2003 quando un autore americano presentò il primo albo di una potenziale serie a fumetti: “The Walking Dead”.
Una vicenda di morte e distruzione, narrata in bianco e nero e popolata dai mostri apocalittici per eccellenza: i morti viventi.
Eppure l’ancora embrionale universo di Robert Kirkman mostrava già un potenziale incredibile per narrare qualcosa di più profondo.
“The Walking Dead” divenne così una delle serie di punta della Image Comics ed è solo recentemente (lo scorso Luglio, per la precisione) che Kirkman ha deciso di porre fine alla sua opera più nota e amata.
Arrivati al 2019 dopo 193 albi e tre serie TV (una ancora inedita), “The Walking Dead” si è creato attorno a sé un gigantesco gruppo di ammiratori che hanno seguito le imprese di Rick Grimes e soci con passione.
Quali sono i ricordi lasciati dalla serie dopo tutti questi anni e tanta morte e sofferenza?
La Storia del Morto Vivente
“The Walking Dead” è essenzialmente un survival horror. Un contesto affrontato innumerevoli volte sia al cinema che nei fumetti.
Kirkman non ha mai fatto mistero di essere partito da basi solide ed efficaci (tipo le opere di George A. Romero) per raccontare qualcosa di suo.
Prendendo esempio da film come “Il giorno degli zombi” e “Dawn of the Dead”, “The Walking Dead” narra della fine del mondo come lo conoscevamo.
Kirkman non è però Romero e per lui lo Zombie non è il veicolo ideale per una metafora politica e sociale ma piuttosto lo specchio deformante dell’animo umano.
I “walkers” diventano così una sorta di pretesto per spingere i nostri personaggi a comprendere la nuova realtà che li circonda ma soprattutto il loro lato più selvaggio e crudele, necessario per sopravvivere.
Una linea guida che influenza anche la trama, facendola evolvere progressivamente.
Partiamo così da un contesto degradante (le metropoli invase dai cadaveri ambulanti) e giungiamo infine a una rete di “colonie” umane atte a ricostruire una nuova forma di civiltà.
Se i morti viventi rimangono una minaccia costante ma sempre più gestibile, ecco che Kirkman presenta il peggio dell’essere umano attraverso il Governatore.
Il Governatore esce di scena? Ecco i nomadi cannibali che poi lasciano spazio ai Salvatori e al loro spregiudicato e sadico leader Negan, diventato poi un personaggio più sfaccettato e uno dei più amati dai lettori.
Negan viene sconfitto? È il turno allora dei Sussurratori, macabri cosplayers di zombi che credono solo alla legge del più forte, e poi giungiamo alla “minaccia” finale rappresentata dal Commonwealth.
Eppure il nemico peggiore dei nostri “eroi” è proprio insito in loro stessi. Non solo perché il morbo li ha contagiati tutti ma perché sono loro a determinare il proprio destino.
Come afferma lo stesso Rick in uno dei monologhi più rappresentativi della saga, Noi siamo i Morti che Camminano. Dipende solo da noi se rimanere tali o combattere per vivere.
Il Finale
Chiudere “The Walking Dead” non era impresa facile.
Tanti anni sono passati e tanti personaggi ci hanno abbandonato. Kirkman ha sempre detto di voler scrivere il film sugli zombie più lungo mai esistito e di per sé l’ha fatto.
Tutto quello che ha un inizio ha però anche una fine.
“Riposa in pace” chiude la saga di Rick Grimes e compagni in modo abbastanza prevedibile ma concedendosi un doppio finale apprezzabile e che rende più completa l’intera storia.
Chi si aspettava un lieto fine in cui il mondo torna alla “normalità” o in cui si scopre l’origine della pandemia che ha cambiato il mondo, rimarrà deluso poiché non ha mai capito il succo di tutto il discorso.
“The Walking Dead” ha sempre sfruttato l’elemento horror per parlare di tematiche universali. Punto.
Per questo abbiamo assistito non a una Saga sugli zombie ma piuttosto su un gruppo di esseri umani che sono diventati leggenda. E per questo possiamo essere grati a Robert Kirkman.