Dalla sua anteprima a Venezia, il dramma “The Whale” è stato accolto come il film del grande ritorno sulle scene dell’attore hollywoodiano Brendan Fraser. Innegabile è la sua prova mastodontica, in tutti i sensi. Tuttavia la trasformazione fisica a cui è stato sottoposto il corpo dell’attore che fa tanto gola all’Accademy Award è solo un aspetto minore di una pellicola stratificata. “The Whale” segna infatti anche il grande ritorno del regista statunitense Darren Aronofsky, la cui riconoscibilità sta nell’inserimento di contenuti disturbanti in scenari dall’estetica ricercata.
Come nei suoi precedenti “The Westler” (2008), “Il cigno nero” (2010) e “Mother!” (2017), anche in questo caso Aronofsky ritrae un personaggio complesso dall’esistenza al limite. Traspone la pièce teatrale del 2014 di Samuel D.Hunter, che firma la sceneggiatura. Il protagonista Charlie (Brendan Fraser) è un professore di letteratura che sta soccombendo lentamente sotto il peso dei suoi duecento sessantasei chili. Ha annegato il dolore per la perdita del compagno nel cibo, facendo terra bruciata intorno a lui di tutti gli affetti, tra cui quello della figlia Ellie (Sadie Sink). L’unica a rimanere al suo fianco nonostante tutto è Lizzie (Hong Chu), la sua migliore amica, il suo angelo custode.
The Whale, il corpo e la stanza
Aronofsky si cimenta nel genere asfittico del dramma da camera. Con intelligenza colloca il corpo di Charlie in una stanza, il set esclusivo in cui si srotola lentamente una vicenda intima che ha a che fare con i legami e la solitudine. Il formato ristretto dell’inquadratura è specchio della stanza stessa e lo spettatore è costretto a entrarci, a sentirsi scomodo, a soffrire per una chiave che cade a terra, a empatizzare con un corpo immenso in cui si nasconde un cuore colmo di amore.
“The Whale” è un film in penombra che lascia entrare la luce dall’esterno solo verso la fine. L’ingresso in scena del protagonista avviene all’insegna dell’oscurità, con un graduale disvelamento. Charlie, impossibilitato a muoversi, tiene le sue lezioni di scrittura creativa a distanza. Lo schermo è occupato interamente da una di quelle schermate digitali multi faccia. Tra i volti degli studenti in ascolto, al centro c’è un quadrante nero, con lo zoom entriamo in quel buio. Davanti allo schermo del computer con la telecamera spenta ci viene così rivelata l’ingombrante presenza di Charlie.
Un dialogo tra cinema e letteratura
Un motivo che tiene ancora in vita il protagonista e che sostiene anche l’intero film è quello della scrittura. Charlie legge continuamente dei frammenti di una tesina sul romanzo Moby Dick di Herman Melville. Il testo, di cui l’autore verrà svelato soltanto nel finale strappalacrime, proponendo una lettura che pone l’accento sulla sofferenza dell’animale perseguitato, commuove Charlie che si identifica con la balena bianca.
L’autore cercava solo di risparmiarci la sua triste storia, almeno per un po’. Questa la frase letta e riletta da Charlie, che resta come una traccia indelebile a fine visione di “The Whale“. Una risposta possibile, per tutti gli spettatori che, finita la visione, legittimamente potrebbero chiedersi quali siano state le ragioni che hanno spinto il genio di Darren Aronofsky a confrontarsi con la lenta agonia di un comune professore di letteratura in bilico tra la vita e la morte.
Eleonora Ceccarelli
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