Sono passati quasi 10 anni da quella tragica notte che infuocò i cieli di Torino, tra il 5 e il 6 Dicembre, portando alla morte 7 lavoratori dell’acciaieria tedesca Thyssenkrupp. Domani, a dieci anni di distanza, potremo dire che la giustizia ha avuto il suo seguito, è stata emessa sentenza definitiva di condanna sino in Cassazione, ma forse non che giustizia è fatta.
Era l’1 di notte del 5 Dicembre 2007 quando l’olio fuoriscito da un tubo rotto nell’acciaieria torinese della Thyssenkrupp, uno dei poli industriali del capoluogo piemontese, prese fuoco. Poco dopo un enorme incendio invade una parte dell’acciaieria, diventando indomabile. Morirono 7 operai impiegati nell’azienda, Antonio Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe De Masi.
“Sostanzialmente non controverso è lo sviluppo delle contingenze che determinarono l’innesco e lo sviluppo dell’incendio – si legge nella sentenza di Cassazione del 24/4/2014. Sfregamento per alcuni minuti del nastro di acciaio in lavorazione contro i bordi dell’impianto posto a quota +3 metri; surriscaldamento con scintille; appiccamento delle fiamme su carta e olio di laminazione che si trovava sul pavimento sotto l’impianto. […] Formazione di una nuvola incandescente di olio nebulizzato (flash fire) che si espanse improvvisamente per un’ampiezza di 12 metri e investì gli operai che si erano avvicinati all’incendio con estintori a breve gittata, senza lasciare loro possibilità di scampo”.
Un evento che rappresenta una delle stragi sul lavoro più gravi degli ultimi anni. Le morti di 7 persone che si sarebbero potute evitare. Tutto si sarebbe potuto evitare infatti: l’incendio non scoppiò per caso. La responsabilità, come riconosciuto sino in Cassazione, fu dei vertici della Thyssenkrupp e degli addetti alla sicurezza.
L’impianto torinese della Thyssenkrupp stava per chiudere e i vertici, come appurato dai giudici, avevano deciso di non investire più denaro per adeguare i sistemi di sicurezza previsti dalla legge.
Sempre la stessa sentenza della Cassazione ha infatti riconosciuto che “emerse un complessivo degrado dell’impianto e la parziale inefficienza dei sistemi di spegnimento. […] Gli ispettori della Asl rilevarono bel 116 irregolarità. […] L’azienda aveva deciso di chiudere lo stabilimento torinese e di trasferire gli impianti a Terni … e la decisione di dismettere l’impianto torinese fosse stata accompagnata dalla decisione di fermare e accantonare gli investimenti per la sicurezza, determinando il progressivo scadimento dell’efficienza e della sicurezza delle lavorazioni. Tale compromessa situazione è stata ritenuta la causa prima dei numerosi inadempimenti di prescrizioni cautelari che hanno condotto agli eventi in esame“.
I condannati, alcuni italiani e altri tedeschi, facevano tutti parte dei vertici dell’azienda e, in un modo o nell’altro, con qualificazioni giuridiche differenti, hanno omesso di adempiere agli obblighi cautelari imposti dalla legge in qualità di soggetti posti in posizione di garanzia, alcuni volontariamente altri no.
Parte dell’iter processuale, che è terminato con la sentenza di Cassazione in questione (che rappresenta una vera e propria “Bibbia” del diritto penale) si è giocata proprio sulla qualificazione dell’elemento soggettivo che ha mosso gli imputati, ossia se si trattava di colpa (in particolare di colpa cosciente) o di dolo (o meglio di dolo eventuale). Da tale scelta derivano infatti importanti conseguenze soprattutto sul quantum della risposta sanzionatoria.
Venendo ad oggi i condannati sono sei, tutti con pene che variano tra i 9 anni e 8 mesi e 6 anni e 3 mesi, così come determinate dalla Corte di Assise di Appello su apposito rinvio della Cassazione.
I familiari delle vittime, però, chiedono ancora giustizia. Secondo loro, infatti, le pene non sarebbero congrue, anzi sarebbero troppo basse per una tragedia che ha visto morire come torce umane 7 uomini all’interno dell’acciaieria Thyssenkrupp di Torino.
Inoltre, mentre i condannati italiani già stanno scontando la loro condanna in carcere, Espenhahn, ex ad della Thyssenkrupp e l’ex consigliere Gerald Priegnitz sono ancora a piede libero in Germania. Per loro le porte del carcere non si sono ancora aperte anche se il Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto alle autorità tedesche di recepire la sentenza di condanna, inadempimento che ostacola la loro carcerazione.
I 13 milioni di Euro con i quali la Thyssenkrupp ha risarcito i familiari delle vittime, su condanna dei giudici, non possono infatti bastare. Occorre che tutti i condannati siano sottoposti alle loro pene, anche se da molti ritenute troppo basse. Le stesse pene che, gli stessi condannati hanno impugnato con ricorso in Cassazione, sollevando l’errore materiale nel loro calcolo, tutti respinti dal Supremo Consesso poco più di un mese fa.
Di Lorenzo Maria Lucarelli