Swordfishtrombones, quando Tom Waits divenne Tom Waits

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Di Redazione Metropolitan

Tom Waits - Ph: web
Tom Waits – Ph: web

Nel 1983 Tom Waits pubblicò l’album che rappresentò un importante punto di rottura nella sua carriera. Swordfishtrombones raccontò i reietti d’America, i loosers, i senza speranza e, soprattutto, vide il cantautore di Pomona esplorare orizzonti e soluzioni musicali mai percorsi prima, in un’ottica di musica totale e avanguardista.

“E’ come se [la voce di Waits] fosse stata immersa in un tino di whisky, poi appesa in un affumicatoio per qualche mese e infine portata fuori e investita con una macchina” Daniel Durchholz, critico musicale

Tom Waits - Ph: web
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Waits esce dalle atmosfere fumose del jazz

Con i suoi primi sette album Tom Waits era diventato il cantore di una fetta d’America destinata ad osservare la propria vita scorrere davanti al bancone di un locale notturno. Uno dei tanti che il nostro aveva impietosamente raccontato costruendo fumose atmosfere jazz, intrise di alcol e sigarette.

La critica cominciava a pensare che non fosse in grado di rinnovarsi e fosse destinato a rimanere un dotato cantastorie jazz da night club. Ma fu proprio in quel momento che Waits giocò la carta che sparigliò tutte le altre: l’album che segnò l’inizio di ciò che sarebbe stata la sua ricerca musicale da allora in avanti, il disco che fece di Tom Waits il Tom Waits del nostro attuale immaginario e che rappresentò una fondamentale svolta per l’intera storia musicale del ‘900. Un lavoro di una tale rottura che la sua storica etichetta discografica, la Asylum, si rifiutò di pubblicare. La Island raccolse la sfida.

Tom Waits - Ph: web
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“Mi piacciono le belle melodie che mi dicono cose terribili” Tom Waits

Un’ America derelitta senza speranza di redenzione

Se Bruce Springsteen, nella letteratura cantautorale a stelle e strisce, è la voce degli ultimi d’America che hanno comunque ancora una speranza di emancipazione dalla propria condizione ai margini e si tengono stretti i propri sogni sfrecciando sulle lunghe e assolate highways, i loosers di Tom Waits non hanno ormai alcuna possibilità di redenzione e riscatto. Strisciano nell’ombra della notte, trascinandosi per le strade buie, non possedendo nient’altro che la propria disperata rassegnazione.

È un’America notturna e nascosta che vive nei sotterranei di quell’altra America bigotta e perbenista che finge di non vedere. Un Underground, presentato in apertura, sveglio mentre il mondo sopra dorme: “there’s a rumblin’ groan down below” (c’è un gemito rombante in basso).

Tom Waits - Ph: web
Tom Waits – Ph: web

I “Rain Dogs” di Swordfishtrombones

I reietti che incontriamo in questo underground e scorgiamo attraverso fugaci lampi di fari nella notte sono vagabondi e squallidi alcolizzati (Gin Soaked Boy), veterani della titletrack tornati dalla guerra e scontratisi violentemente contro la realtà di una condizione che non lascia possibilità di rivalsa. Sono soldati morti di cui tutto ciò che è rimasto è una scatola di oggetti di poco valore (Soldier Things), uomini dal cuore infranto, folli allucinati in un soprannaturale che si mischia col reale del quotidiano (16 Shells From Thirty Ought Six e Down Down Down).

Questi scherzi della natura, irrimediabilmente vinti, si muovono in atmosfere desolanti di cittadine di provincia fotografate nella loro immobilità, senza incorrere in alcun mutamento (In The Neighborhood e Town With No Cheer). Una quotidianità cristallizzata e logorante che, nel momento in cui viene smascherata, suscita le reazioni deliranti di Frank che da fuoco alla propria casa e scappa via (il talking-jazzy di Franks Wild Years).

In The Neighborhood – Tom Waits

L’universo a metà tra il realistico e l’onirico di Swordfishtrombones trova rappresentazione grafica nella copertina dell’album. Una foto di Michael A. Russ, fotografo avanguardista, che riprende con la tecnica del TinTone un Tom Waits in maglietta bianca e bretelle in una posa canzonatoria quasi glamour e in compagnia di due attori hollywoodiani: Angelo Rossitto e Lee Kolima. I due proiettano l’immaginario dei freaks waitsiani, nello specifico: gli opposti poli di nani e giganti (Rossitto era alto 89 cm, Kolima quasi 2 metri). Ritornano nel videoclip di In The Neighborhood.

Tom Waits - Ph: web
Tom Waits – Ph: web

La nuova dimensione musicale

Swordfishtrombones è il primo album della cosiddetta “Trilogia di Frank” (seguiranno Rain Dogs e Franks Wild Years). Un trittico che ha inaugurato e consolidato la dimensione musicale di Waits dagli anni ’80 in poi. Su di un tessuto blues e jazz, ormai padroneggiato, l’artista ha innestato una varietà di nuovi suoni, talvolta distorti e quasi psichedelici, prodotti da una moltitudine di strumenti spesso non convenzionali: in Swordfishtrombones ne sono presenti 45.

Shore Leave è uno dei suoi migliori esperimenti musicali, una commistione con un ritmo afrocaraibico in cui l’autore immagina di camminare in sperdute stradine asiatiche e utilizza una sedia per rendere un suono che nessun altro strumento avrebbe potuto ricreare. Il nostro viaggio alla scoperta di queste esistenze randagie scorre su marce da fanfara o ritmi sincopati da rock ‘n’ roll, su blues d’avanguardia ma anche sulle tre tracce strumentali dell’album (Dave The Butcher, Just Another Sucker On The Vine e Rainbirds) che riallacciano il filo conduttore delle atmosfere stranianti e desolate.

Tom Waits - Ph: Anton Corbijn
Tom Waits – Ph: Anton Corbijn

Che rumore fa l’infelicità?

Da Swordfishtrombones in poi, il cantautore camminerà senza più voltarsi indietro sul wrong side of the road, fermandosi con gli emarginati, gli sghembi, i gretti abitanti di un’America dimenticata che ha visto vanificate le proprie promesse di infinite possibilità. Un mondo sotterraneo e buio, maleodorante, umido e sgradevole che non sarà però mai deriso, quanto piuttosto oggetto di compassione.

Per raccontare questa popolazione “sbagliata” e solitaria Waits si è alzato dal suo iconografico pianoforte per accogliere organi, cornamuse, chitarre elettriche, marimbe e percussioni. Dando definitivamente un’impronta inconfondibile al più stupefacente degli strumenti: la sua voce, ancor più cavernosa e arrochita, rantolante e imbevuta di whisky e sigarette. Per citare Jack Kerouak, uno degli autori che ne furono fonte di ispirazione: “Solitario come l’America, un suono gutturale nella notte.”

Emanuela Cristo

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