Ha sollevato un polverone il concorso indetto tempo fa dalla Regione Lazio per l’assunzione di due medici ginecologi all’ospedale San Camillo di Roma.
Il motivo del contendere era stata la finalità del concorso: i due neoassunti entreranno in servizio per garantire l’applicazione della legge 194, quella che regola appunto l’aborto. In caso di rifiuto ad effettuarlo, i medici potranno essere licenziati entro i primi sei mesi, mentre passato questo termine potranno essere messi in mobilità o in esubero.
L’aborto è da sempre un tema caldo nel nostro paese: il varo della stessa legge che lo regola fu duramente osteggiato dalle associazioni cattoliche, dalla Chiesa e da parte della classe politica. Ma la necessità di stroncare un fenomeno altrimenti incontrollabile – quello degli aborti clandestini – e di tutelare la salute e la libertà delle donne di scegliere cosa fare del proprio corpo ebbero la meglio.
Tuttavia, la stessa legge introdusse la possibilità dell’obiezione di coscienza, inserita per evitare dolorosi dilemmi morali ai medici. Ma è giusto che in una struttura pubblica, che deve garantire alle donne l’applicazione di una legge, l’aborto venga – di fatto – ostacolato?
Ovviamente no, ma i dati del ministero della Salute sul numero di medici obiettori sono impietosi: tolto il caso della Valle d’Aosta (13% di medici obiettori), si passa dal 51% dell’Emilia-Romagna al 93% del Molise, con una media di obiettori intorno al 70%.
I medici non obiettori, di fatto, si trovano costretti – per garantire la possibilità alle donne di abortire – a praticare solo interruzioni di gravidanza. Quasi una sorta di ghettizzazione, oltre alle minori possibilità di carriera garantitegli rispetto ad altri. Molti di loro, dopo anni passati a praticare quasi esclusivamente aborti, decidono di diventare obiettori.
Eppure, la questione dell’aborto non può essere affrontata solo guardando alla contrapposizione obiettori/non obiettori. Si tratta di un problema più grande, che deve partire dalla radice: la sessualità e l’educazione ad essa. L’educazione sessuale, ed il sesso più in generale, sono visti come un tabù, si prova quasi una sorta di vergogna ad affrontare un tema che invece dovrebbe essere discusso sia a casa che a scuola.
Insegnando già ai giovanissimi quali sono i metodi contraccettivi più efficaci, spiegando quali sono le conseguenze del sesso non protetto (gravidanze indesiderate, malattie sessualmente trasmissibili, e via elencando) non si da ai ragazzi una licenza per dedicarsi all’edonismo sfrenato, bensì li si pone in condizione di non doversi trovare davanti a problemi più grandi di loro. Perché i ragazzi il sesso lo praticano, nonostante le famiglie continuino a pensare “si, ma non i miei figli”. Questo significa ignorare il problema, fino a quando non busserà alla porta di casa.
Le scuole invece si organizzano come possono (non essendo un insegnamento obbligatorio), con l’aiuto di associazioni o con la buona volontà di presidi e professori. Ma naturalmente non basta.
Eppure, insegnare ai giovanissimi a vivere una sessualità consapevole e scevra di rischi, ad accettare il cambiamento fisico con il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza avrebbe riverberi positivi anche sui numeri dell’interruzione volontaria di gravidanza.
Ma è bastato il diffondersi della storia del gender a bloccare ulteriormente l’educazione sessuale nelle scuole, una bufala seconda sola alla correlazione tra vaccini e autismo per la sua diffusione e il panico scatenato. Le associazioni ultracattoliche si battono gridando contro “l’omosessualizzazione della società”, il “complotto della lobby gay che vuole distruggere la famiglia” e l’uomo nero.
Ed hanno pienamente ragione. Perché dovremmo desiderare delle future generazioni più aperte e tolleranti? Perché dovremmo insegnare loro una sessualità consapevole e matura, quando un bel silenzio imbarazzato può essere altrettanto esaustivo? Lottare contro le discriminazioni di genere, insegnare qualcosa, che spreco.
Meglio un bel revival di mentalità medioevale, senza dubbio
Lorenzo Spizzirri
Per approfondire, qui l’articolo di Laura Paoletti sul caso del concorso all’ospedale San Camillo-Forlanini.