Tre manifesti, tre frasi che campeggiano improvvisamente alle porte di Ebbing, Missouri, accusando la polizia di un’imperdonabile inerzia. Il disperato richiamo d’attenzione è opera di Mildred Hayes (Frances McDormand), una madre distrutta dal brutale omicidio della figlia Angela.
Molto più del crimine – ancora senza colpevoli – commesso pochi mesi prima a Ebbing, sono proprio i tre manifesti a scandalizzare la cittadina di provincia. Per assurdo, colpisce più l’attacco sferrato all’integrità delle divise che l’orrore del crimine irrisolto. I manifesti, troppo diretti, crudi e inquisitori per la gente del posto, riportano solo la verità. Da pretesto insignificante diventano appunto il fulcro del film, simbolo anche della tenacia della sua protagonista.
I tre manifesti di Martin McDonagh
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) è il terzo lungometraggio di Martin McDonagh, noto commediografo britannico. Il film, come le sue opere teatrali, è permeato da un particolare dark humour, un umorismo macabro oltre che “scorretto”, di fatto irresistibile. Nonostante le vicende drammatiche, infatti, Tre manifesti è a tutti gli effetti una commedia, una commedia nera. I suoi (perfetti) tempi comici sono inseriti in contesti sociali e narrativi apparentemente discordanti. È quel genere di commedia che, ribaltando il politicamente corretto, fa sentire in colpa per le risate che riesce a strappare. In questo risiede già il primo elemento di attrazione. Il secondo, è senza dubbio il cast.
Un trio da Oscar
Woody Harrelson, Sam Rockwell e Frances McDormand sono stati tutti candidati all’Oscar per l’interpretazione in Tre Manifesti. Fra i due uomini, naturalmente fu solo uno, Rockwell, a vincere nella categoria non protagonista. Frances McDormand, invece non ebbe quasi concorrenza in cinquina, portando a casa anche l’Oscar dopo il Golden Globe, il BAFTA e due SAG Awards.
Non poteva essere altrimenti. Il personaggio di Mildred Hayes prende proprio vita nel corpo di McDormand, investendo il pubblico con tutta la sua potenza. È un ruolo difficile, poiché si tratta comunque di una madre traumatizzata dal dolore, anche se quel dolore si trasforma in furia distruttiva.
Mildred non ha assolutamente niente da perdere. Il suo unico scopo è trovare l’assassino della figlia, o almeno convincere la polizia a non interrompere le indagini. Il suo lutto, anziché trasformarsi in impotenza, le accende dentro una rabbia incontenibile. Perde ogni filtro, ogni tipo di empatia, ogni vincolo o freno sociale, al punto da sembrare folle. La sua aggressività, tanto fisica quanto verbale, è contemporaneamente lo sfogo della sofferenza e lo strumento per scuotere le coscienze dei suoi concittadini.
Un ottimo sviluppo scenico
Da grande scrittore di teatro quale è, McDonagh sviluppa separatamente gli archi dei tre personaggi. In parallelo al dramma di Mildred, per esempio, lo sceriffo Willoughby vive e affronta il proprio. Logorato da un male incurabile, si prepara a uscire di scena alle sue condizioni. L’interpretazione di Harrelson riesce così a creare un legame immediato con il pubblico, una parentesi puramente drammatica e commovente.
L’agente Jason Dickson (Rockwell), invece, è il personaggio su cui McDonagh ha sperimentato di più, costruendo uno sviluppo molto complesso. Viene presentato come un presuntuoso poliziotto razzista di provincia, abbastanza stupido, ignorante e violento. Una serie di eventi lo trasformano tuttavia in un alleato inaspettato per Mildred. Interessante in proposito è anche la resa scenica di questo cambiamento, il pensiero registico oltre che drammaturgico.
Stile e regia di Tre manifesti
Martin McDonagh lentamente cerca di far avvicinare il pubblico a un personaggio moralmente repellente come l’agente Dickson. Lo si può già intuire dallo spettacolare piano sequenza – di circa due minuti – che segue un violento pestaggio da parte del poliziotto. Scegliendo un movimento di macchina puramente cinematografico, il regista diventa l’ombra del personaggio, portando lo spettatore nel mezzo dell’azione, rendendolo complice. Poco dopo Dickson è vittima di un grave incidente che lo costringe al ricovero, con il corpo interamente bendato. La macchina da presa opta per una chiara soggettiva, con i margini dell’inquadratura coperti dalle bende stesse. Vuole e impone che lo spettatore si avvicini il più possibile al punto di vista di Dickson, in modo che il suo successivo cambiamento risulti credibile e non incoerente.
L’elemento scatenante di questa trasformazione avviene nell’incontro, in ospedale, con il ragazzo poco prima picchiato. Nella medesima scena il regista sfrutta anche un meccanismo puramente teatrale, come in molti altri dialoghi, in opposizione al precedente piano sequenza. I movimenti di macchina cioè si bloccano, lo spazio diventa angusto e immobile, troppo stretto per contenere la tensione iniziale fra i due.
Un’eccezione che diventa materia da manuale
Non c’è quindi un solo modo per descrivere questo film. Tre manifesti a Ebbing, Missouri racchiude tutta la personalità e la poetica del suo autore ma anche tutto il carisma e il talento dei suoi interpreti. È quasi incredibile l’equilibrio tecnico e strutturale di una storia invece così emotiva, collerica e straordinariamente umana.
Articolo di Valeria Verbaro
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