Uguaglianza di genere: ancora non ci siamo e l’Europa ci boccia. Gli sforzi della politica sono tanti e sui più svariati fronti, ma l’Italia continua ad essere ripresa per la mancata implementazione di misure che sostengano realmente l’empowerment femminile. In che direzione andare?

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Ci risiamo.

L’Italia bocciata ancora una volta dal  Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa sull’attuazione di politiche per le donne. Magra consolazione: non siamo soli. Il giudizio negativo pesa su 14 dei 15 Stati europei posti sotto esame dopo le sollecitazioni provenienti da diverse organizzazioni, tra cui l’ong University Women of Europe.

Siamo ben consapevoli – ma rassegnate solo temporaneamente! – del fatto che la crisi provocata dal Covid-19 abbia portato ad una esacerbazione di certi condizionamenti, stereotipi e pregiudizi, ed anche di certi vincoli. Tutti insieme hanno finito per pesare in maniera insostenibile sulla dimensione quotidiana di moltissime donne. D’altronde teniamo sempre accesa la speranza che la politica ed i luoghi di potere possano attivarsi concretamente con l’obiettivo di costruire, passo dopo passo, una parità tangibile. Anche l’Organizzazione Mondiale del Lavoro – ILO conferma che l’impatto della crisi è stato enorme, non solo in relazione al carico di lavoro (sia professionale, sia in ambito familiare) ma anche in considerazione del fatto che le donne rappresentano la netta maggioranza impiegata in alcuni del cluster economici più colpiti dagli effetti della pandemia (settore alimentare, turismo, vendita).

Da dove iniziare?

Serve uno scossone, un vero e proprio rimbalzo in avanti. Da dove iniziare per davvero? Verso quali orizzonti deve guardare la politica? Uno su tutti il diritto alla parità di retribuzione. Il mondo in cui viviamo attribuisce un valore monetario ad ogni cosa: bene, è allora perché mai il mio lavoro “di donna” deve valere meno di quello di un collega uomo? La parità retributiva impatta due elementi fondamentali: il primo è quello della sfera dell’indipendenza – economica soprattutto – essenziale per rendere una donna libera da vincoli; il secondo è – appunto – quello del riconoscimento di un uguale valore del proprio lavoro ed impegno, agendo verso l’esterno nei confronti della società circostante e verso l’interno sulla consapevolezza di noi stesse.

Il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa ha individuato i punti fondamentali su cui ogni Stato deve agire nel quadro di tale visione di parità:

  • riconoscere, all’interno della propria legislazione statale, il diritto alla parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore;
  • permettere alle vittime di discriminazione salariale di poter fare ricorso;
  • assicurare e garantire la trasparenza delle retribuzioni per consentirne il confronto;
  • poter fare affidamento su organismi ed istituzioni competenti al fine di garantire la parità di retribuzione nella pratica.

Il diritto alla parità retributiva deve anche ovviamente essere adeguatamente sostenuto e promosso. In primo luogo grazie alla raccolta di dati affidabili e standardizzati per misurare e analizzare il divario di retribuzione tra i sessi; in seconda battuta, grazie all’elaborazione di politiche e misure efficaci volte a ridurre il divario di retribuzione tra i sessi sulla base di un’analisi dei dati raccolti. 

Maledetta sovrastruttura

Ovviamente a condizionare la persistenza di tali disparità subentra la nostra acerrima nemica: la sovrastruttura culturale. Marx, ai tempi, ci insegnava che  la sovrastruttura non è altro che la forma attraverso cui il singolo entra in contatto con la struttura materiale della società. Troppo complesso? Semplifichiamo: la sovrastruttura culturale è lo strumento capace di consolidare la persistenza di luoghi comuni e barriere sociali che-non-si-sa-da-dove-vengono-fuori che contestualizzano ogni individuo nella società con cui si rapporta.

Sei donna? Bene. La società si aspetta che tua sia madre, educata, ubbidiente (ma a chi?), che tu non abbia mai ruoli lavorativi di peso, che la casa sia un affar tuo, che tu sia debole nel corpo e nella mente. Signore e signori: che visione arcaica! Siamo tutti d’accordo che questa sovrastruttura va cambiata, abbattuta e ricostruita: è uno dei passi fondamentali per uscire dal pantano dell’immobilismo sulla parità di genere.

Dove guarda la politica?

Eppure la politica nel nostro Paese non è immobile, anzi – da donna ed insider – dico che ci fa ben sperare. Da un lato il Parlamento, dove iniziano a fiorire numerose le proposte di legge per colmare il gender pay gap o per promuovere uno switch di pensiero culturale (date un occhio qui); dall’altro il Ministero per le Pari Opportunità che ha lavorato su molteplici fronti, primo su tutti la definizione di un Family Act. Quest’ultimo contiene numerosi proposte tese a ristabilire una forma di equilibrio nelle dinamiche vita-lavoro delle donne.

Non dimentichiamo neppure il lavoro della Task Force tutta femminile “Donne per un nuovo rinascimento” che ha sostenuto l’idea di istituire un osservatorio sulla parità di genere. L’osservatorio ha l’obiettivo di monitorare quale sia il livello dei parità di genere dei soggetti pubblici e privati e di procedere alla certificazione della parità per le imprese. Dunque attenzione al welfare tradizionale – in cui includere famiglia, smart working, asili nido – ma si sostanzia una visione più ampia che ci parla di scienza, di progetti dedicati alle materie scientifiche (STEM), di formazione per promuovere le competenze digitali.

Insomma, lo scenario lascia ben sperare. Soprattutto nell’ottica della crescita di una sensibilità reale e concreta sul tema della parità di genere. Ai posteri l’ardua sentenza (con la speranza che i posteri non siano i nostri nipoti!)

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