
C’è chi ha definito tutta l’operazione “diplomazia del vaccino”: quella che in un momento di affanno a livello continentale, tra ritardi e accordi non rispettati, fa invidia a molti paesi. La campagna vaccinale sta aiutando il presidente serbo Aleksandar Vicic a consolidare, soprattutto agli occhi degli occidentali, la propria immagine di leader perché la Serbia sta offrendo vaccini a tutti gli stranieri che hanno la possibilità di recarsi lì e scegliere tra Pfizer, AstraZeneca, Moderna, e anche Sputnik che – insieme al cinese Sinovac – non ha avuto il via libera dall’Ema. Settima a livello mondiale e seconda in Europa – subito dopo il Regno Unito – il Paese, lontano dai riflettori, con un terzo della popolazione già vaccinata, è tra i primi in cui la campagna vaccinale sta procedendo più spedita. Al punto da aprire le frontiere ai paesi vicini. Come ha spiegato in un approfondimento l’Istituto per gli studi di politica internazionale, le ragioni di una performance simile sono principalmente due: innanzitutto la Serbia, che non è parte dell’Ue, ha scelto autonomamente quali vaccini importare ed utilizzare. La strategia vincente ha puntato a rifornirsi velocemente e direttamente del numero più alto possibile di tutti i vaccini sul mercato, russi, cinesi, occidentali. Non a caso, a gennaio è stato il primo Paese europeo a ricevere due milioni di dosi del Sinovac, il vaccino cinese disponibile in grandi quantità insieme a tutti gli altri principali vaccini. Il secondo motivo riguarda invece l’organizzazione della campagna, gestita attraverso un sistema di amministrazione digitale chiamato eUprava, che dunque non è stato preda dell’ “inefficienza delle procedure pubbliche del paese”. Un sms indica data, ora e luogo dell’iniezione, e la conferma del vaccino scelto. Perché si può persino scegliere. Un successo garantito inoltre dall’abbondanza di dosi rapportata al numero della popolazione: i serbi sono appena 7 milioni, e con una popolazione prevalentemente di giovani è stato più facile mettere in sicurezza le fasce d’età più fragili e a rischio.
Il caso-simbolo: via alle vaccinazioni in Serbia
I paesi confinanti sono stati i primi a muoversi verso la Serbia perché fra i primi a risentire della carenza di dosi a disposizione in Europa. Il confronto è impietoso. Ma anche tanti italiani hanno in mente di muoversi, perché nel bel paese la campagna vaccinale va così tanto a rilento che chi può, fisicamente ed economicamente, va a farsi iniettare il siero all’estero. Il caso-simbolo di questo espediente, poco praticato, ma del tutto legale, è stato quello del Conte Simone Avogrado di Vigliano che, al Corriere della Sera, ha raccontato di essersi vaccinato in Serbia seguendo le linee guida consigliate dal sito dell’ambasciata italiana: dall’11 gennaio scorso, infatti, il governo dell’ex repubblica jugoslavia ha consentito ai cittadini dell’estero anche senza permesso di soggiorno di compilare la richiesta e mettersi in lista per il vaccino. Dai paesi confinanti sono arrivati in decine di migliaia fra fine marzo e inizio aprile. Ed è aperto a tutti, senza divisioni di età, categoria sociale o, appunto, cittadinanza. Anche diversi rifugiati dei centri d’accoglienza sono stati vaccinati. Uno dei punti forza della campagna vaccinale è infatti proprio quella di non discriminare nessuno.
La procedura tuttavia non è da sottovalutare, intanto perché il sito è in serbo e un traduttore automatico può non essere abbastanza. Serbo deve essere anche il numero sul quale ricevere l’sms del sistema di amministrazione digitale. Per tutto il mese di aprile non ci sono tra l’altro voli diretti dall’Italia: bisogna fare scalo a Vienna, Zurigo o Budapest. Mentre, a chi venisse in mente, in macchina da Milano sono 11 ore. Insomma, non proprio una passeggiata.
Francesca Perrotta