Le locandine patinate, i disegni sognanti in acquerelli, ci raccontano il mondo di Broadway, delle commedie musicali. Quando pagare un biglietto per un musical, voleva dire avere un posto accanto alla fantasia più sfrenata; l’adrenalina che si vestiva a festa di paillettes. Qui, Vincente Minnelli, muove i primi passi. Tra la cartapesta, le tavole e la polvere da palcoscenico, dietro le quinte a sbirciare il nero della platea, inizia come costumista e scenografo teatrale.
Saranno state le scarpe di Fred Astaire che ballavano il tip tap, e che elettrizzavano New York; le signore impellicciate in abito da sera, i gangster in gessato e cappello alla Bogart, a ubriacare l’estro di Vincente. Che come il nome, scelto per destino, preannuncia, divenne regista affermato e ‘vincente’. Non c’è musical importante senza la sua firma. Fu l’asso della manica della prestigiosa casa di produzione di spettacoli sfarzosi ed eleganti, Metro Goldwin Mayer. Hollywood applaudiva estasiata, dai grattacieli alle sale, dalle strade agli schermi. Polvere di stelle negli occhi di tutti.
Strano essere Vincente…
Forse non era un santo, ma un eroe. Si sposò quattro volte. Secondo marito di Judy Garland, questa fu la storia che tra amore e cinema, appassionò di più. S’incontrarono sul set, mentre si girava “Incontriamoci a San Louis”. Ebbero l’unica figlia Liza. Il cabaret nel sangue, attrice, cantante, premio oscar, la congiunzione perfetta dello stile della famiglia. Chi non la conosce? Intrepida donna a sgambettare su una sedia. Tra calze a rete, e un cappello da alzare in un su e giù musicato. La sua “New York New York” la sanno anche a Canicattì.
Aveva origini siciliane Vincente Minnelli, Lester Anthony, il vero nome in stile americano, e nel cognome tutto il sole del sud Italia. Non si accontentava; studiava letteratura, arte ed era attento alle mode, un innovatore capace di stravolgere le solite riprese cinematografiche. Aggiungendo di suo nella trama. Come la possibilità di modificare il mondo, alle volte troppo squallido e quotidiano. In ogni suo film aveva messo la speranza del sogno rincorso. Non era superficiale Minnelli; quando metteva in scena le sue opere, si ispirava ai colori dei grandi pittori, come Van Gogh e Renoir. Il surrealismo era in tutti i suoi lavori. Pennellate di stile visibili nei suoi racconti al cinema, dove si notava la sua mano, abile, con la macchina da presa. Come un artista muove il pennello per suscitare emozioni.
Le magiche musiche di Minnelli
Vincente Minnelli lavorò con l’attore ballerino Gene Kelly, ma non dici niente, se non lo ricordi volteggiare in “Singing in the rain“; per mano un lampione e un ombrello chiuso, bagnato ma allegro, tra le pozzanghere zuppo e felice di non si sa bene cosa. Vinse un Oscar, Minnelli, per la miglior regia nel 1958, del film “Gigi“; maturo e impenitente dongiovanni che cantava la famosa “Thank God for Little Girls“. E, con “Un americano a Parigi” portò a casa ben dieci Oscar; le musiche di Gershwin al pianoforte ed orchestra, ancora suonate in molti concerti. Quelle magiche note, le abbiamo ascoltate tutti, almeno una volta nella vita. Si sogna da fermi. C’era una volta Hollywood, ma niente sarebbe stato lo stesso senza i suoi maestri. I fumi dei sotterranei, con i loro soffi, come le ventate di poesia nei film di Minnelli. Vedere per credere. Un uomo nato per il teatro e per costruire sogni.
Federica De Candia per MMI E Metropolitan Cinema. Seguiteci!