Violenza sulle donne e cinema: gli errori nella rappresentazione non sono più tollerabili

Foto dell'autore

Di Chiara Cozzi

La violenza sulle donne è un argomento che, al cinema, ha sempre trovato il modo di venire rappresentato. A partire dai white slavery films, che popolavano gli schermi degli anni ’20 e ’30 con lo scopo di irretire le spettatrici a recarsi al cinema: storie di corruzione, prostituzione e morte che invece, anziché allontanare le fastidiose astanti – colpevoli di lasciarsi troppo andare alle emozioni delle pellicole – le fecero appassionare al genere e diventare delle vere e proprie amanti del cinema.

Che cosa notiamo, tuttavia, da questo aneddoto? Ovviamente, la posizione marginalizzata della donna, sia rappresentata che spettatrice. Quest’ultima colpevole di empatizzare con la pellicola e quindi ritenuta puerile e fastidiosa, un impedimento per chi voleva guardare il film senza sentire singhiozzi o risa. Ed ecco quindi che la soluzione migliore sembra essere quella di mettere in scena la violenza sulle donne, per farle stare buone e silenziose. Al loro posto, che non è certo il cinema – ma un altro luogo che inizia con la C.

Protagoniste umiliate, vessate, vittime delle sofferenze più terribili e spesso uccise da uomini pericolosi e barbari. Succedeva quasi cento anni fa, e succede anche ora.

Donna: puttana o martire. La violenza sulle donne nel cinema di Mordini, Verhoeven e Noé

L’esempio più recente è quello de La scuola cattolica, il film sul massacro del Circeo che, tra le altre cose, ha fatto discutere proprio per la rappresentazione della violenza ai danni delle due donne. Spesso troppo feticistica, con primissimi piani sui corpi delle vittime, cosa particolarmente fuori luogo e fastidiosa visto il momento di intenso dramma che si stava svolgendo sullo schermo. Ma penso anche a Elle di Paul Verhoeven, in cui la protagonista viene aggredita in casa propria e stuprata senza restare più di tanto sconvolta dal fatto, ma iniziando un gioco con il proprio stupratore al fine di scoprirne da sola l’identità. Oppure mi viene in mente la nauseante rappresentazione che ne fa Noé in Irréversible, che non risparmia nessun dettaglio, arrivando a far star male gli spettatori.

È vero, la violenza sulle donne deve fare male, deve sconvolgere, perché è ancora troppo sottovalutata, ma è così necessario scendere nei dettagli? È così necessario ricordare che a subire c’è un corpo che viene costantemente violentato e aggredito in altri modi dalla società e dalle sue aspettative? Abbiamo bisogno di essere rappresentate prima come puttane e poi come martiri?

La verità è che servirebbe una rappresentazione meno improntata al feticismo e al pietismo e più su ciò che un atto simile provoca in una donna. Sarebbe necessario, e più empatico, focalizzarsi non sull’atto in sé, sulla sua brutalità e meschinità, bensì sull’incapacità di capire una vittima. Sulla difficoltà che questa ha a rendere legittima la propria esperienza e il proprio status non di vittima, ma di sopravvissuta.

Non sensazionalismo, ma sensibilizzazione. E, possibilmente, una platea a cui rivolgersi per non restare per sempre relegate nell’ombra e nel silenzio.

Chiara Cozzi

Continua a seguire BRAVE anche su Facebook.

Ph: Wikipedia