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“White Hot”: su Netflix il documentario sul razzismo targato Abercrombie

White Hot – L’ascesa e la caduta di Abercrombie & Fitch è il titolo del nuovo documentario Netflix che ha al centro il brand di abbigliamento che è stato l’assoluto protagonista degli adolescenti a cavallo degli anni ’90 e 2000.
Posso ancora oggi sentire l’eco delle voci eccitate delle mie compagne di scuola alla vista di qualsiasi pubblicità e, soprattutto, prodotto targato A&F; vedo ancora oggi i loro sorrisi smaglianti sfoggiati nelle fotografie accanto ai modelli del brand e ricordo le file interminabili per entrare nel negozio.

Non credo di aver mai posseduto qualcosa del brand, ma ricordo che fosse un vero e proprio status symbol: un po’ come le tute Frankie Garage o i jeans Angel Devil, ma più figə. Se possedevi qualcosa di Abercrombie, potevi considerarti arrivatə; e ne eri consapevole, poiché la campagna di marketing attorno il concetto di privilegio e lusso del brand era subdolamente aggressiva, mostrando la netta distinzione tra chi poteva vestire i propri capi e chi no.

Da ciò che emerge in White Hot, è chiaro che questo fosse il valore principale di Abercrombie non solo in ambito pubblicitario ma alla base di tutta la filiera. L’azienda, consapevole del fatto che l’emulazione sia uno dei principali meccanismi di identificazione dell’essere umano, proponeva un unico modello a cui aspirare: quello bianco e bellissimo. Ora fermatevi un attimo a pensare e fate lo sforzo di tornare indietro di qualche anno: quante altre etnie oltre quella caucasica avete visto nelle pubblicità e nei negozi A&F?

White Hot: le politiche razziste di Abercrombie & Fitch

Non è un caso che in A&F ci fossero solo ragazzə bianchə: l’azienda promuoveva volontariamente la loro assunzione a svantaggio di quella di rappresentanti di altre etnie. Se unə dipendente asiaticə o afrodiscendente veniva assuntə era costrettə a ricoprire necessariamente i turni di chiusura e di pulizia dei punti vendita. Un vero e proprio processo di ghettizzazione, come se fosse una vergogna da non mostrare alla clientela.
Logicamente, anche questa era caucasica: non trovando rappresentazione nel brand, le altre etnie erano costrette a spendere i loro soldi altrove e, soprattutto, a interfacciarsi ancora una volta con micro-aggressioni razziste che gli ripetevano per l’ennesima volta che non erano abbastanza. Negare infatti il diritto alla rappresentazione e all’identificazione rappresenta un vero e proprio atto di disumanizzazione. Si smentisce volontariamente il riconoscimento e l’esistenza di altre etnie a eccezione di quella dominante, aumentando ancora una volta i gap etnici e di conseguenza il privilegio di quella caucasica in un meccanismo che non ha niente di diverso dalla segregazione.

Non solo razzismo: la cultura della perfezione e le molestie sessuali

Tuttavia lo scenario presentato da White Hot non si limita al razzismo: coloro che avevano lavorato per Abercrombie ricordano la rigida selezione di bellezza attuata dai vertici. I volti del brand, che si trattasse di modellə o semplici commessə, erano continuamente sotto una lente d’ingrandimento con cui si giudicava il loro aspetto, che doveva rispondere a standard e requisiti davvero esigenti.
Non bastava essere semplicemente carinə: bisognava essere lə più bellə e rappresentare la perfezione, alimentando continuamente l’oggettivazione e il consumismo dei corpi, facilmente sostituibili con pezzi di ricambio più performanti.

A questo si aggiungono le denunce per molestie sessuali: alcuni modelli uomini hanno si sono fatti avanti accusando il fotografo Bruce Weber, autore degli scatti più celebri di A&F, di avergli fatto avances non gradite e costretti spesso ad atti sessuali non consensuali, a cui i ragazzi dovevano sottostare pena il licenziamento e la rescissione da qualsiasi contratto.

Un fiume di melma che non poteva non esondare: i vertici di Abercrombie & Fitch sono stati infatti obbligati a correre ai ripari e a cambiare radicalmente la policy dell’azienda, assumendo addirittura dei responsabili e supervisori all’inclusione che facessero periodicamente un report.
Negli ultimi anni l’azienda ha adottato uno stile e un’immagine decisamente più inclusivi, ma viene da chiedersi, dopo anni di discriminazioni (e non solo), se sia abbastanza e se il pentimento sia reale.

Chiara Cozzi

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