Prosegue e si conclude il nostro viaggio discografico “Fuori dal Coro”. Di nuovo andremo a pescare tra lavori di artisti – questa volta stranieri – probabilmente poco noti al pubblico italiano di massa, sconosciuti o quasi all’ebbrezza della nostrana Hit Parade, ma che pur non avendo riscosso ampia diffusione popolare, meritano ascolto e attenzione.
Rinnoviamo i migliori auguri per un buon anno nuovo, pieno di ascolti e ottima musica!
————————————————————————————————————
Fleet Foxes, “The Crack Up”
Il tanto atteso terzo album della band di Seattle, figlio di una routine in studio durata ben sei mesi: un lavoro sorprendente, complesso, sfidante. Si tratta senz’altro dell’episodio più ambizioso per il quintetto folk rock, autentica scommessa vinta. Undici i brani in scaletta, denso flusso sonoro lungo quasi un’ora. Non manca il sound distintivo per cui il gruppo è connotato da ormai dieci anni: le armonie a quattro voci, le litanie a base di chitarre acustiche, le tastiere vintage. La visione è però più ampia, maestosa, magniloquente nel gestire melodie, suoni e arrangiamenti.
St.Vincent, “Masseducation”
Il quinto album per l’eclettica cantautrice, già trionfante ai prestigiosi Grammy Awards, vale a dire gli Oscar dell’industria discografica americana. Co-prodotto da Kack Antonoff e dal suo grande intuito per melodie fruibile e vincenti (Fun; Bleechers), suonato in collaborazione di validi strumentisti ospiti – tra cui citiamo Tuck & Patti, Greg Leisz, Jenny Lewis, Kamasi Washington – il Cd ci restituisce un artista nel pieno del suo sforzo di reinvenzione di sé stessa e degli scenari sonori e testuali che le gravitano attorno. La reazione alla notorietà acquisita complice il gossip – le sue relazioni con alcune ben note attrici Usa – ha in qualche plasmato il suo lavoro più accessibile finora (Pop nel senso più audace eppure godibile del termine), ulteriore conferma ad altissimi livelli per St.Vincent, ora più che mai accolta nel Pantheon dei grandi del rock contemporaneo.
The National, “Sleep Well Beast”
La crisi del settimo album non riguarda I National. Quanti finora hanno sempre creduto nella “raffinatezza in slow-motion” della band, nel gusto per quell’elegante malinconia intimista, tutta voce, tastiere e chitarre, ritroveranno nel loro ultimo disco ancora più sfumature ad arricchire l’idea di suono. Anche e soprattutto stavolta, nonostante le aspettative, ci ritroviamo di fronte a un successo luminoso. La formula vincente che la band aveva adottato sin dal primo episodio di successo, “Alligator” qui si stratifica e si perfeziona, assumendo rischi ma alla fine confermando i National come una delle migliori band di questo decennio.
The War on Drugs, “A Deeper Understanding”
Quarto disco in studio per la band indie rock di Philadelphia guidata da Adam Granduciel, nonché prima affermazione su etichetta major (Atlantic). Il nostro Adam per tessere le sue trame sonore (che nel tempo gli sono valse paragoni lusinghieri con il ‘Classic Rock’ dei Dire Straits, di Tom Petty & The Heartbreakers) conta ancora su stratificati, magniloquenti intrecci legati alla sua chitarra elettrica solista, affiancata più del solito dalle tastiere. Un certo stato di irrequietezza resta ancora in agguato sotto forma di canzone, declinata spesso e volentieri dalle tonalità vocali dylaniane e nasali. Trovate un divano comodo, indossate delle buone cuffie, trova una finestra da cui guardare fuori, e lascia che il tempo fluisca tutto intorno a voi. La musica farà il resto.
Father John Misty, “Pure Comedy”
Almeno in apparenza, questo nuovo capitolo sonoro non sembrerebbe poi così diverso dal suo album di successo di un paio d’anni fa, “I Love You, Honeybear”. Certamente più aspro e sottilmente cinico e amaro sul coté testuale, mentre l’influenza musicale principale – laddove nel lavoro precedente l’ombra lunga di Phil Spector e del suo ‘Wall of Sound’ era quasi ingombrante – resta evidentemente il corpus di dischi che Elton John ha realizzato nei primi anni Settanta.
Il 36enne Josh Tillman non è certo la prima persona ad informarci di un pianeta condannato, di una popolazione sempre più sconnessa e immune all’orrore, mai sazia sazi di intrattenimento becero, di politici venali ed egoisti. Ma è difficile, nel panorama cantautorale americano degli ultimi anni, pensare a qualcuno che lo abbia fatto in modo così potente e suadente al tempo stesso.
Laura Marling, “Semper Femina”
La più dotata cantautrice britannica dei nostri tempi, la 27enne Laura Marling, è andata a pescare nientemeno che un passo dell’Eneide di Virgilio (“Varium et mutabile semper femina”, ovvero ‘La donna è una creatura sempre varia e mutevole”), già da anni tatuato sul suo corpo, per raccontare una serie di ritratti di donne nel suo splendido sesto album in studio. Melodie acustiche folk dal passo elegante ed enigmatico. La sua musica è radicata nella tradizione popolare inglese, ma anche nella California meridionale tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Inizialmente inteso come un esercizio di scrittura sulle donne dal punto di vista maschile, Marling ha ben presto scoperto che i sentimenti che stava esprimendo erano, in realtà, i suoi, così che il disco è diventato il lavoro descrittivo di una donna sulle donne, in perfetto equilibrio tra introspezione e osservazione.
Big Thief, “Capacity”
Secondo episodio per la band indie rock di Brooklyn guidata da Adrianne Lenker, un parto musicale che, va detto subito, è possibilmente ancor più bello e intenso del debutto edito l’anno scorso: un mix di seduzione e paura con passaggi lirici che raramente non sorprendono, anche dopo ascolti ripetuti. Divertente, bizzarro, dissonante, assolutamente inebriante: uno schiaffo autentico verso chi da troppi anni ormai ci ripete che l’indie rock è morto. Non è così, basterà avvicinarsi a questo disco per convincersene: chitarre acustiche, elettriche, dolcezza e graffi, voce di velluto, produzione sempre ben a fuoco, nessuna sbavatura, senso della misura e canzoni che ti restano addosso come una seconda pelle.
Ariel Bertoldo