In quella che è stata consacrata come “Festa delle donne”, c’è una cosa che è bene sottolineare, e cioè che oggi – 8 marzo – no, non è la ‘festa’ della donna, ma la “Giornata internazionale della donna”. Il Women’s Day nacque nel 1909, negli Stati Uniti, per volontà del partito socialista americano, e merita di essere chiamato con il suo vero nome. Una sottigliezza che cela, in realtà, una differenza sostanziale: quello di “Festa delle donne” è infatti un titolo coniato dalla cultura ‘pop’ degli ultimi decenni – utilizzato solo in Italia – che tende a far disperdere il potente significato sociale e politico di opposizione al potere, di cui le battaglie in ambito socialista, da parte delle donne, si fecero portatrici agli inizi del Novecento. E che annulla qualsivoglia senso di riflessione, in ragione di festeggiamenti che vedono l’8 marzo solo come un giorno di maggiori ‘libertà’ per la donna, dipinta magicamente come “unica e fondamentale”, nel ringraziarla per i suoi servigi.
Le versioni alternative – più o meno plausibili – che i media hanno preso a diffondere contribuiscono, tra l’altro, ad ampliare un immaginario all’interno del quale le donne non sono tanto delle protagoniste, quanto delle vittime: basti pensare al racconto secondo cui, nella stessa data – l’8 marzo – si sia verificato un incendio in una fabbrica di camicie di New York, in seguito al quale sono morte 123 donne immigrate, italiane ed ebree. Un racconto, anche questo, veritiero solo in parte, perché l’incendio sì, è avvenuto, ma il 25 marzo. La Giornata internazionale della donna è nata infatti per celebrare l’iniziativa femminile, non per commemorare le morti. Eppure a prevalere è la narrazione delle ‘vittime sacrificali’, che accompagna oggigiorno la figura della donna in quanto tale: la stessa che deve ancora sforzarsi per vedersi accettati gli stessi diritti degli uomini, nonché quel rispetto che, nel concreto delle relazioni, è un riconoscimento quasi raro.
Esempi di (dis)parità di genere
La donna non ha bisogno di mimose e cioccolatini, ma di essere riconosciuta e valorizzata. Inutili i tentativi di inserirla in contesti storicamente patriarcali, se l’unico movente che sta dietro certe mosse è quello di preservarsi l’immagine: delle donne ci si ricorda sempre per riparare a degli ‘errori’. Dalla politica, allo sport, gli esempi non tardano a mancare, fino a toccare gli ambiti più ‘leggeri’ dell’intrattenimento, dove anche lì viene meno la piena riconoscenza delle qualità dell’universo femminile. Il Festival di Sanremo, da questo punto di vista, ne sa qualcosa, e Amadeus – direttore artistico per il secondo anno di fila – ci aveva anche avvisati. Nonostante le sue ‘gaffe’, il conduttore è stato riconfermato in virtù degli ascolti totalizzati nella precedente edizione – i migliori degli ultimi vent’anni. Un successo che ha dunque oscurato completamente le polemiche sorte in relazione agli ‘epiteti’ attribuiti alle donne “molto belle” e “capaci di stare un passo indietro” che aveva scelto al proprio fianco, e per i quali si era giustificato chiamandoli semplici “fraintendimenti”.
Ma noi donne – che di sicuro non dimentichiamo – siamo capaci di perdonare e quindi eccoci qui pronte a dare una seconda possibilità al buon Amadeus, che per ricambiare la benevolenza ha deciso di riconfermare il modus operandi dello scorso anno, ripetendo la formula di ‘una donna diversa per ogni serata’. Un gesto che – bisogna ammettere – ha sollecitato apprezzamenti in virtù dell’opportunità offerta a più donne di salire sul palco dell’Ariston – da sempre particolarmente ambito – ma anche critiche dettate dal poco tempo che, in fondo, ciascuna ha di farsi conoscere e apprezzare dal pubblico. Noi, però, non siamo qui per trovare il pelo nell’uovo. Al contrario, siamo qui per sottolineare quanto la bravura di una donna, anche “molto bella”, non abbia bisogno di più tempo: il tempo è solo un valore aggiunto. Ce lo ha dimostrato, tra le tante, Matilda De Angelis, l’attrice che nella prima serata ha fatto capire di avere tutte le carte in regola per sostenere il palco più importante d’Italia: non solo come conduttrice, ma come artista a 360 gradi; e poi Beatrice Venezi che, durante la serata andata in onda venerdì scorso, con poche parole, ma chiare e dette col sorriso, ha in pochi secondi scacciato il femminismo più integralista – quello che non piace neanche alle Donne. “Io sono un direttore d’orchestra” , ha corretto Amadeus, che la stava presentando come direttrice. Una precisazione che alcune “donne democratiche” non hanno molto digerito, accusando la Venezi di aver commesso un grave errore nel declinare al maschile il proprio ruolo: “No Venezi, non funziona così. Il linguaggio è stato e continua ad essere fondamentale nella battaglia di genere”. Ma per quanto fondamentale, non sta forse (s)cadendo nel dittatoriale questo linguaggio? Magari è l’ora di finirla con il politically correct e di passare all’azione.
“Gli uomini dovrebbero essere contenti che le donne vogliono parità e non vendetta”
La scrittrice Othegha Uwaga diceva che “Gli uomini dovrebbero essere contenti che le donne vogliono parità e non vendetta”. Ebbene, questa è la strada che hanno scelto le donne: quella che non consiste nel ricambiare con la stessa moneta, ma solo nel lottare per vedersi riconoscere principi, valori, diritti, e doveri ugualmente riconosciuti agli uomini. Attaccarsi alle parole per rivendicare un genere – che non è e non vuole essere superiore all’altro – finisce per combattere una guerra con quelle stesse armi che le donne per anni hanno subito: quelle, cioè, della differenziazione. E se proprio dobbiamo differenziarci, allora facciamolo in questo. Dichiararsi ‘direttore’ non significa rinnegare di essere una donna, né di non andarne fieri. Ma solo mettere in primo piano ciò che si sa fare, perché “competenza e merito fanno la differenza”, proprio come la Venezi ci ha voluto ricordare.
La diversità non implica automaticamente l’esistenza di gerarchie: accettare la diversità è, anzi, il primo passo per riuscire a ridefinire quel mondo in cui tutti – indistintamente – meritiamo di esistere, così come di ‘competere’ per il raggiungimento di determinati traguardi. “Qui non puoi entrare” è un cartello che ha smesso di valere anche nei confronti degli animali. Se aumentiamo – tutti – il livello culturale, automaticamente impareremo a rispettare le donne, così come gli uomini: così come noi stessi. Tutti i giorni, anche, e per davvero, l’8 marzo.
Francesca Perrotta