Uno dei generi cinematografici da me prediletti è quello del Cinema d’Animazione. In queste lunghe giornate di quarantena, ritengo valida l’opportunità di recuperare alcuni titoli non appartenenti al canone disneyano ma altrettanto meritevoli.
Ecco quindi la prima parte di un personale listino che non comprende tutti i miei film d’animazione preferiti (altrimenti avrei pubblicato direttamente un libro) ma solo alcuni di essi. Di certo quelli che ritengo degni di essere (ri) scoperti.
9
“Siamo soli?” “No”
Questo è un film d’animazione che in pochi conoscono e non è nemmeno al livello di molti prodotti animati contemporanei. Eppure “9” ha alcune caratteristiche davvero pregevoli.
Il racconto apocalittico del piccolo 9 e dei suoi compagni è simile a quello di altri titoli sulla fine del mondo come “The Road” e quindi assistiamo ad una lotta per la sopravvivenza, propria e dell’umanità.
Il fatto che stavolta i protagonisti siano un gruppo di pupazzetti, ciascuno rappresentante di un lato dell’essere umano (bello o brutto che sia), rende lo scenario apocalittico ancora più cupo.
Apparentemente l’animazione digitale di “9” è inferiore rispetto agli standard dell’epoca ma tale impressione è dovuta alla decisione del regista Shane Acker di ricalcare lo stile dell’animazione passo a uno (lo stesso favorito da uno dei produttori del film ovvero Tim Burton).
Oltre a questo, la rappresentazione del mondo distrutto e delle macchine che lo dominano è un incredibile combinazione delle fantasie di H.R.Giger e i temi universali tipici della fantascienza ( “Blade Runner” ma non solo).
“9” non ha la grazia tecnica di alcuni film della Pixar e nemmeno la loro originalità ma per chi vuole un’alternativa più “adulta” allora vi conviene tentare.
Batman-La Maschera del Fantasma
Questo è un titolo che qualsiasi fan di Batman dovrebbe conoscere.
Nato come spin-off cinematografico della nota serie animata degli anni ’90, “La Maschera del Fantasma” alterna il racconto delle origini del Cavaliere Oscuro con quello della sua più grande sfida.
Bruce Wayne dovrà infatti affrontare un misterioso avversario, il Fantasma, che porterà il vigilante mascherato ad interagire con un suo amore passato e con un Joker più maligno che mai.
Ispirandosi alla graphic novel “Anno Uno” di Frank Miller, “La Maschera del Fantasma” prosegue con lo stile d’animazione della serie madre e ne abbandona il lato più misurato ma comunque cupo per avvicinarsi al fumetto d’origine.
L’atmosfera si fa meno infantile (la morte stavolta è presente, per quanto poco esplicita) e Gotham City diventa una città davvero oscura che, nonostante l’operato di Batman, non sembra abbandonare il suo status di “metropoli maledetta”.
Basti pensare all’Esposizione Universale di Gotham, un Luna Park che dovrebbe rappresentare una nuova era di progresso per la città ma che nel corso del tempo cade in disgrazia fino a diventare la grottesca residenza del Joker.
Rispetto alla serie esploriamo per la prima volta l’animo tormentato di Bruce, scoprendo il dolore mai sopito della perdita dei suoi genitori e la frustrazione riguardo la sua missione, rappresentato dal personaggio di Andrea (molto più che una semplice fiamma).
“La Maschera del Fantasma”. Un gradevole Spin-Off che esalta al meglio l’universo oscuro di Batman e delle anime contorte che ruotano intorno a lui.
La canzone del mare
In uno scenario che vede una prevalenza opprimente di film animati con la computer grafica, prodotti disegnati in modo tradizionale come questo “La canzone del mare” sono un toccasana sia per il cinema che per i nostalgici come me.
A cavallo tra “La Sirenetta” di Andersen e “Il Mago di OZ”, “La canzone del mare” è una deliziosa fiaba che vede il piccolo Ben e la sorellina Saoirse alle prese con il mistero della scomparsa della madre.
Quando poi Saoirse sembra essere molto più di quello sembra, Ben vivrà avventure che lo porteranno ad interagire con alcune delle più celebri figure del folklore irlandese e non solo (i Selkie, Mac Lir, Macha, Il Grande Seanachai) che ricordano alcuni volti noti al piccolo protagonisti.
Oltre ad essere un’ interessante incursione nella tradizione fiabesca inglese unita al racconto di una famiglia che cerca di affrontare una grande perdita, “La canzone del mare” è un vero gioiellino.
Con un disegno semplice eppure molto ricco, il film di Tomm Moore è una piacevole boccata d’aria fresca in mezzo a vari “Dragon Trainer” e “Big Hero 6”, film spettacolari a livello tecnico e divertenti ma che non possiedono il fascino sempreverde dell’animazione tradizionale.
La Regina delle Nevi
L’adattamento della fiaba di Andersen del ‘57 diretto da Lev Atamanov è uno di quei gioiellini che bisognerebbe mostrare nelle scuole di cinema.
Non solo è uno di quei cartoni appartenenti alla “vecchia scuola” che conserva un fascino tutto suo ancora oggi ma è anche uno dei pochi lungometraggi animati capace di trasmettere il piacere del racconto e la magia delle fiabe.
La ricca e complessa storia dei piccoli Gerda e Kai alle prese con un crudele maleficio perpetrato dalla Regina delle Nevi viene introdotta dalla figura di Ole Chiudigliocchi, folletto che ricorda il Grillo Parlante di memoria disneyana (senza essere irritante allo stesso modo) e che introduce l’atmosfera del racconto.
Un mondo freddo (circondato per lo più dalla neve) ma anche incantato, popolato da maghe, uccelli parlanti, principi e principesse, briganti e animali dotati di un raziocinio quasi umano.
Tutto mostrato da un’ animazione semplice eppure vitale e coinvolgente (non a caso il film di Atamanov ha influenzato Hayao Miyazaki). Insomma un prodotto d’altri tempi ma che conserva tutt’ora una magia unica e sempre più rara nel cinema odierno e non solo animato.
La Fattoria degli Animali
“Tutti gli animali sono uguali. (ma alcuni sono più uguali degli altri)”
A George Orwell si devono due grandi opere della letteratura mondiale: “1984” e “La Fattoria degli Animali”.
Quest’ultima è una fiaba satirica in cui Orwell sfrutta il contesto di una fattoria in cui gli animali prendono il posto del padrone per farne un’ allegoria del totalitarismo sovietico di Stalin.
Inutile dire che il cartone animato è l’unica e la migliore forma per adattare un romanzo così semplice nella struttura ma complesso nei contenuti. Il risultato è efficace? Incredibile ma vero, lo è.
Tolta una variazione nel finale che stona un po’ con il clima pessimista del romanzo, “La Fattoria degli Animali” ricalca perfettamente lo stile del racconto orwelliano utilizzando un’ animazione semplice ma che non si avvicina minimamente a quella disneyana e dotata di un’atmosfera “adulta” che bilancia sarcasmo e riflessione.
Indovinata anche l’idea di far raccontare la storia da un narratore esterno che ci mostra la situazione, assistendo così alla ribellione e poi al degrado della nuova società degli animali che vede la supremazia dei maiali, sempre più simili ai disprezzati esseri umani.
In fondo chi ha mai detto che i cartoni animati sono solo per i bambini?
Pinocchio
“Una volta c’era un Re…”
Enzo D’Alò è forse l’unico regista di cartoni animati italiano che non ha rinunciato all’aspetto più poetico e artigianale di un genere che in Italia non ha mai davvero attecchito.
Lo si nota nei suoi film migliori come “La Freccia Azzurra” o “La Gabbianella e il Gatto” ma anche in “Momo alla Conquista del Tempo” o nel poco brillante “Opopomoz”. Eppure è proprio questo ennesimo adattamento della fiaba di Pinocchio a portare D’Alò verso la sua fase più matura.
Guardandolo bene, questo “Pinocchio” è una summa del meglio proveniente dal cinema d’animazione internazionale.
Qualche richiamo inevitabile alla Disney ma anche al cinema di Bruno Bozzetto, qualche paesaggio alla Miyazaki e uno stile visionario e tendente alla caricatura che ricorda quello di Chomet e del suo “Appuntamento a Belleville”.
D’Alò non è però uno che copia e incolla ma piuttosto un regista che omaggia e che soprattutto fa la cosa più importante in un adattamento: essere fedele pur aggiungendo qualcosa di proprio.
Così la trama ripercorre fedelmente quella del romanzo ma aggiunge qualche variante, non escludendo alcuni episodi quasi mai rappresentati in adattamenti precedenti (ne è un esempio perfetto il capitolo del Pescatore Verde) e dando spazio anche ai personaggi di contorno e allontanandoli dagli archetipi più abusati.
Una cosa che però “Pinocchio” ha e che risulta essere il suo vero punto di forza è…che ha cuore. Lo dimostra la passione con cui D’Alò racconta una storia arcinota e il modo con cui la anima, grazie anche al contributo musicale di Lucio Dalla (a cui il film è dedicato).
Non sarà il titolo più rivoluzionario della storia dell’animazione ma avercene di cartoni animati così in questi anni sempre troppo digitalizzati.
Jin-Roh
Torniamo ad atmosfere più adulte con il cupo lungometraggio di Hiroyuki Okiura, ambientato in un alternativo Giappone degli anni ’60.
Una realtà alternativa in cui il terrorismo sembra la “soluzione” ad un regime che sembra richiamare quello della Germania Nazista e dove a contrastarlo vi sono delle Forze Speciali che agiscono come un branco di belve.
I motivi per cui “Jin-Roh” non è il “solito anime” sono il possesso di una maturità artistica che si è vista in pochi prodotti giapponesi e uno stile d’animazione meno nipponico che lo rende accessibile anche ai più scettici (pregio che condivide con i film dello Studio Ghibli).
Inoltre il film di Okiura rappresenta una critica (nemmeno tanto velata) sulla storia politica del Giappone, dai movimenti studenteschi di sinistra a cavallo tra gli anni sessanta e settanta alla situazione che vedeva sia il popolo (compresi i “ribelli”) che i politici incapaci di trovare un’intesa.
Bisogna ammettere che le emozioni, unite ad un racconto crudo e poco propenso alla speranza, non mancano e raggiungono livelli molto alti durante il climax finale che rimane, senza ombra di dubbio, uno dei momenti più intensi della storia dell’animazione.
Poco conosciuto ai più ma assolutamente da recuperare, “Jin-Roh” è il film giusto per quelli che credono gli anime siano solo tizi biondi che volano e sparano luce dalle mani.
Lupin III e il Castello di Cagliostro
“Il premio cui ambisco è un tesoro di grande valore che un mago cattivo tiene chiuso in cima a un’alta torre. Damigella, permetti a questo umile ladro di portarlo via”
Ci tengo a precisare che io con la serie a cartoni di Lupin III ci sono cresciuto eppure non ne ho mai condiviso la passione sfrenata di molti miei coetanei. Semplicemente non è scoppiata la scintilla.
Non posso dire quindi di aver visto tutti lungometraggi con Lupin III protagonista e non nego che il motivo che mi ha portato a guardare “Il Castello di Cagliostro” è stata la presenza di Hayao Miyazaki alla regia.
Ciò che mi ha colpito e mi colpisce tuttora de “Il Castello di Cagliostro” non è tanto l’animazione (comunque notevole) o la caratterizzazione dei personaggi ma piuttosto il ritmo così sfrenato e così “cinematografico” che mi ha fatto capire l’essenza dei film di Miyazaki: storie che riescono ad essere “reali” solo grazie all’animazione.
Forse lo spirito della creatura di Monkey Punch non è del tutto rispettata visto che il cinismo è assente e fa capolino invece una poesia che anticipa il futuro cinema dello Studio Ghibli e di Miyazaki in particolare.
“Il Castello di Cagliostro” è a tutti gli effetti una fiaba tradizionale con una principessa da soccorrere (la dolce Clarisse), un cattivo da sconfiggere (il perfido Conte di Cagliostro) e un manipolo da eroi rappresentato dallo scalcinato ma romantico Lupin e i suoi fedeli compagni/rivali.
E ci sono proprio tutti: dal fidato Jigen al serio Goemon e senza dimenticare la provocante Fujiko e lo sfortunato ispettore Zenigata. Si può chiedere di meglio? Io non credo.
“Il Castello di Cagliostro” è un perfetto mix di avventura, divertimento, romanticismo e fantasia che fa già intuire il talento del futuro maestro del cinema d’animazione.
Arrietty
“Arrietty, tu sei diventata una parte del mio cuore: non ti dimenticherò. per sempre”
Il minimondo sotto i nostri piedi è sempre stato un affascinante scenario per molti film e racconti scritti.
Uno dei più celebri è la serie “The Borrowers” scritta da Mary Norton. Le storie degli Sgraffignoli non passò inosservato all’occhio di Hayao Miyazaki e questi le usò come modello per questo esordio alla regia di Hiromasa Yonebayashi.
Dall’Inghilterra degli anni 50 alla Tokyo del 2010, assistiamo al bizzarro incontro tra il giovane Sho, un ragazzo di 14 anni dal carattere e preoccupato per un imminente operazione al cuore, e la coetanea Arietty.
Solo che Arietty non è un essere umano ma bensì un membro della razza dei “prendimprestito”, creature alte pochi centimetri che sfruttano gli scarti degli esseri umani per ricavare qualsiasi cosa possa migliorare la loro esistenza.
La relazione tra Sho e Arietty si presenta complessa, se non impossibile. Non è detto però che non possano imparare qualcosa l’uno dall’altro.
Il soggetto di “Arrietty” è molto semplice ed è forse uno dei film dello Studio Ghibli dalla struttura più accessibile a un pubblico più vasto.
Ciò che non lo differenzia dagli altri film della casa di produzione sono l’animazione, sempre splendida e la capacità di mischiare il mondo della fantasia con la realtà in tutta la sua complessità e spesso crudezza.
Mi sono reso conto che col passare del tempo in pochi hanno visto questo piccolo grande film e un po’ mi dispiace perché dei racconti di formazione così intensi e commoventi sono sempre meno frequenti. “Arietty” è sicuramente uno di questi.
Anomalisa
Conoscendo la complessità di film come “Essere John Malkovich” o addirittura “Synecdoche, New York”, sorprende vedere quanto ci ha messo Charlie Kaufman a cimentarsi con l’animazione.
Aggiungete la sua passione per le tecniche artigianali (amore che condivide con il suo vecchio socio Spike Jonze) e avrete “Anomalisa”.
Animato con la cara vecchia tecnica Passo Uno, “Anomalisa” è il nuovo capitolo del mondo di Kaufman. Un universo in cui il grigiore del quotidiano genera follia e disperazione e dove solo un sentimento come l’amore sembra garantire un po’ di speranza.
Protagonista e alter ego di turno dello stesso Kaufman stavolta è il represso motivatore Michael Stone, un uomo che ha raggiunto un livello di depressione tale da portarlo a vedere tutte le persone intorno a lui (donne e bambini compresi) con la stessa fisionomia e voce.
Tutto sembra cambiare incontrando la dolce e goffa Lisa che sembra ricordargli per un attimo ciò che lo rende umano.
Ironici, perfidi, visionari e maledettamente beffardi. I film di Kaufman sono sempre stati così.
Eppure con “Anomalisa” l’occhio dell’autore è meno cinico ma anzi più rassegnato e ancora più bisognoso di un qualcosa su cui aggrapparsi per non essere schiacciato dal lato più meschino della vita e per raggiungere la felicità.
Scopriamo però insieme a Michael che a volte la soluzione non è così semplice da trovare. Se non la si vuole davvero. Ciò rende “Anomalisa” un tragicomico ma anche pietoso ritratto dell’essere umano.
Per scoprire le successive posizioni, vi aspettiamo la prossima settimana. Stesso luogo, stessa ora!
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