Stiamo affrontando un periodo sicuramente molto particolare, di preoccupazione, isolamento e distanza. Ma spesso questa distanza fisica riesce a renderci emotivamente più vicini, più sensibili. E questo è quello che il popolo della rete ha mostrato in reazione all’articolo uscito circa qualche settimana fa per Weird scritto da Simone Fontana che, in modo crudo, attento e giusto, ha parlato di revenge porn.

Una viaggio nel substrato culturale del nostro tempo

L’articolo ha portato alla luce una situazione che con un eufemismo potremmo definire raccapricciante, ma di certo non nuova. Gruppi Telegram (quelli presi in analisi), il cui nome viene censurato nell’articolo, in cui per lo più uomini scambiano messaggi “vendendo” dati personali, fotografie, video che riguardano donne a loro vicini come una forma di vendetta. Parliamo di ex, amiche o addirittura figlie.

In questo risulterebbe semplicemente riduttivo parlare di “uomini cattivi”, o di “femminismo”. L’analisi dovrebbe essere un po’ più approfondita, non tenendo conto di tutti quei commenti già letti sulla scia del “se non vuoi che si pubblichino, non farti certe foto” o “te la sei cercata, proprio santa non sei”.

Per comprendere a fondo l’argomento, è necessario soffermarsi su quanto noi inevitabilmente e il più delle volte inconsciamente viviamo una doppia vita. Una è la nostra vita quotidiana, in cui (quarantena ed isolamento da pandemia esclusi) ci svegliamo la mattina, ci prepariamo il nostro caffè, saliamo in macchina, stiamo nel traffico, andiamo a lavoro, sorridiamo ai colleghi, ai clienti, torniamo a casa, baciamo il nostro compagno o la nostra compagna, passiamo tempo di qualità con la nostra famiglia e le nostre amicizie, facciamo sport. Poi c’è un’altra vita. Da questa quasi nessuno è escluso. Abbiamo una vita virtuale, trasposta sui social network e sulle varie piattaforme. Non mi sto limitando a parlare di foto carine e canzoni condivise. Parlo di realtà parallela. Tutti cerchiamo in un certo modo di portare in questa nostra seconda realtà la proiezione migliore di noi stessi, per apparire migliori agli altri e principalmente a noi stessi. Un modo di esaudire ogni nostro bisogno di apprezzamento ed accettazione. Un posto dove ogni nostro desiderio può in qualche modo concretizzarsi. E fino a qui non c’è assolutamente nulla di male. Ognuno di noi posta in modo pubblico o privato quello che preferisce. Il che vuol dire che ognuno di noi si sente quasi sempre piuttosto libero di mandare qualsivoglia genere di file multimediale in maniera privata a quello che può essere un compagno, una compagna, amici, parenti, conoscenti. Ognuno di noi può avere anche anche un semplice archivio sul proprio pc, tablet o cellulare di cose che semplicemente devono essere private.

Sul concetto di “privato” dovremmo soffermarci un momento. Colui che negli ultimi anni se ne è occupato con passione e dedizione è sicuramente Stefano Rodotà (Cosenza30 maggio 1933 – Roma23 giugno 2017),professore, accademico e giurista italiano. Il professor Rodotà si occupò della tanto dibattuta legge sulla Privacy e tutela dei dati personali. In occasione della 26th International Conference on Privacy and Personal Data Protection, il 13 settembre 2004, Stefano Rodotà nel suo discorso riassume molto bene l’importanza della tutela dei nostri dati personali e sul legame forte fra privacy, libertà e dignità.

Noi pensiamo di discutere soltanto di protezione dei dati, ma in realtà ci occupiamo del destino delle nostre società, del loro presente e soprattutto del loro futuro. […] Emerge un legame profondo tra libertà, dignità e privacy, che ci impone di guardare a quest’ultima al di là della sua storica definizione come diritto ad essere lasciato solo. Senza una forte tutela delle informazioni che le riguardano, le persone rischiano sempre di più d’essere discriminate per le loro opinioni, credenze religiose, condizioni di salute: la privacy si presenta così come un elemento fondamentale dalla società dell’eguaglianza. […]Senza una forte tutela del “corpo elettronico”, dell’insieme delle informazioni raccolte sul nostro conto, la stessa libertà personale è in pericolo diventa così evidente che: la privacy è uno strumento necessario per difendere la società della libertà, e per opporsi alle spinte verso la costruzione di una società della sorveglianza, della classificazione, della selezione sociale. […] La privacy si specifica così come una componente ineliminabile della società della dignità : parola, questa, scritta all´inizio della Costituzione tedesca proprio come reazione alla logica nazista e che, oggi, apre la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea.

Ma il titolo di questa conferenza ci ha soprattutto proposto una associazione assai impegnativa, quella tra privacy e dignità. Ci obbliga così a considerare tutti i problemi specifici in un contesto caratterizzato dalla preminenza della persona e dei suoi valori, della sua libertà e autonomia.

In queste poche righe estrapolate dal discorso di Rodotà possiamo capire in modo tecnicamente preciso il legame fortissimo fra la tutela dei nostri dati e la nostra stessa dignità, nonché libertà.

Tornando su un piano più pratico, pragmatico, e meno teorico, le parole di Rodotà possono facilmente riadattarsi al contesto di cui si sta facendo analisi.

I famosi e sopracitati “dati personali” in questo caso possono banalmente essere considerati un numero di cellulare, un numero di telefono aziendale, un indirizzo, un nome e cognome, arrivando poi a fotografia e video.

In questi gruppi Telegram, che come spiega bene l’articolo hanno una sorta di “piano di ricostruzione”, per cui ogni qualvolta periodicamente vengono chiusi per “contenuti pedopornografici”, in pochissimo tempo vengono ricreati da capo con un numero sempre più grande di utenti che partecipano, vengono condivisi senza autorizzazione dalle parti interessate tutti i dati di cui sopra.

Questo, a livello legale, rappresenta già una fortissima violazione di dati personali nonché un reato. In aggiunta a questo, molto spesso vengono condivise fotografie e video da contenuti pornografici di donne che sono state ex compagne, ex mogli, o in alcuni casi, attuali fidanzate, con il preciso scopo di far insultare le protagoniste o farle essere oggetto di eccitazione sessuale. È altrettanto importante specificare che non sono solo donne le vittime di questo fenomeno, per lo più si, ma ci sono molti casi in cui le stesse umiliazioni sono messe in atto ai danni di uomini e ragazzi.

Ora, come Simone Fontana ha perfettamente detto nel suo articolo, si parla di stupro di gruppo virtuale. A questa definizione in molti hanno gridato all’esagerazione, che è un termine troppo forte. Ma torniamo alla constatazione dell’oggettiva dualità di esistenza che tutti conduciamo. A livello virtuale, quello che i membri di questi gruppi fanno è uno stupro a tutti gli effetti. Leggendo i messaggi che si sono scambiati, la veemenza, la brutalità con cui si esprimono rivolgendosi alle vittime è talmente forte che non è così difficile crearne una trasposizione sul piano reale.

A questo punto ci si potrebbe trovare su un sottilissimo filo del rasoio. Potremmo trovarci davanti a quella riflessione per cui se noi trasliamo i nostri desideri, le nostre voglie nella nostra realtà virtuale, allora potremmo considerare questi atteggiamenti come mera soddisfazione dei nostri desideri, alla stregua di un semplice piacere sessuale. Come potrebbe essere quello, in alcuni casi, di una violenza erotica. Che crea una sorta di appagamento sessuale in chi la pratica. Questa è una cosa che esiste, ed esiste sul piano virtuale come in quello reale. Basti pensare alla pornografia reperibile su qualsiasi piattaforma video in ambito bdsm.

Allora, potremmo chiederci: “ma allora prima questi comportamenti sono da condannare, poi però sono accettati se si tratta di desiderio sessuale, di violenza erotica. È incoerente, no?”.

Bene, lecita domanda. Risposta: No. La differenza? Il consenso. Il consenso è quella semplice azione che differenzia il lecito dall’illecito. Nel caso preso in analisi, nessuna vittima ha dato il suo consenso alla pubblicazione di dati personali, fotografie o video all’interno dei gruppi sopracitati.

Le conseguenze di tutto questo? Le più svariate. Dall’isolamento volontario della vittima, ai complessi di inferiorità rispetto a figure apparentemente più autoritarie, depressione, perdita di impiego, isolamento sociale, allontanamento dalla famiglia, fino a casi più drastici (come purtroppo più noti) di suicidio.

La cosa che più dovrebbe far accendere le nostre coscienze e farci riflettere è che non è una caccia alle streghe verso “l’uomo cattivo”. Quel famigerato “uomo cattivo” è nostro padre, nostro marito, il nostro compagno, il nostro migliore amico, nostro cugino, il nostro collega, il nostro professore, il tassista. Ma non solo. L’ “uomo cattivo” è nostra madre, nostra sorella, la nostra migliore amica, siamo noi stesse.

Questo atteggiamento di violenza verbale e fisica è nel nostro DNA sociale, è parte del nostro substrato culturale che ci porta a dare automaticamente della “puttana” a quella ragazza che non ha risposto positivamente al nostro invito, a quella cassiera scortese, a quella ragazza che sabato sera aveva la gonna molto corta e una bella scollatura. Esagerato anche questo?

Siamo tutti responsabili di questo. Di questo e molto altro. Ogni qualvolta ci sentiamo autorizzate e autorizzati a dare della puttana ad una donna, ogni qualvolta reputiamo giusto fischiare per strada ad una ragazza, ogni qual volta una pacca sul culo che vuoi che sia, ogni qualvolta pensiamo sia meglio non rispondere, non intervenire, non alzare un polverone, ogni volta che “non è niente”: tutto questo substrato culturale posta in un certo senso ad un’alienazione dalla realtà, e ad una trasposizione totalitaria sul piano virtuale. E da qui la classica risposta “Vabbè ma che vuoi che sia, è un messaggio su Facebook”. Una totale deresponsabilizzazione dell’uomo verso le proprie azioni di sfogo. Perché?

Perché fa paura. Fa paura prendere coscienza che tu che stai chiedendo foto di una dodicenne, sei padre e baci tua figlia prima di addormentarti. Fa paura perché tu che pubblichi foto e video pornografici della tua ex compagna, sei il figlio che bacia sua mamma quando gli prepara da mangiare.

Perché nel 2020, dopo guerre e millenni di storia vissuti, l’uomo ancora non è pronto a guardarsi negli occhi e prendersi la responsabilità non solo delle proprie azioni, ma non è pronto a prendere coscienza e responsabilità di se stesso, dei propri desideri, e di chi egli sia nella realtà più vera e profonda.

Questo è quello che fa più male.
Si potrebbe, a questo punto, scadere nell’invitante crogiolo del “però certe ragazze che si fanno quelle foto, alla fine, se la vanno un po’ a cercare”. No. Un “No” grande come quello di Brannox alla stampa in “The New Pope”.

Un no che deve riecheggiare per sempre nel cuore.

Un no che deve essere chiaramente rappresentante la liberà di tutti nel fotografarsi, riprendersi, pubblicare e postare dove e come si preferisce, ciò che si vuole. Il tutto con il proprio consenso, nel totale rispetto di tutti.

Potremmo riflettere e giungere alla conclusione che tutto questo dolore, tutta questa cattiveria non sia necessaria. Soprattutto potremmo credere che attraverso una profonda rieducazione del nostro substrato culturale tutto questo può cambiare, maturare, evolversi. La Donna madre di quegli uomini, la Donna moglie, la Donna figlia, la Donna amica, la Donna collega. Noi. E se noi per prime ci abbracciassimo senza pugnalarci per invidia, cattiveria, gelosia, noia. E se riuscissimo a fare una comune rete di forza e tenacia che possa sorreggere tutte le donne che da sole non riescono a trovarla questa forza? E se in fondo il segreto fosse questo? Tenerci la mano, anziché darci schiaffi?

Io in fondo, nel mio piccolo, nonostante abbia dovuto privatizzare e poi riaprire i miei profili, nonostante abbia dovuto cambiare numero di telefono, nonostante tutto io mi sento forte e fortunata. Io so di essere circondata di donne che ti tengono la mano. Ma non è mai abbastanza. Per essere libere, per essere liberi dobbiamo stringerci tutti. Senza eccezioni.

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