Si parla spesso di parole difficili da pronunciare quando si fa riferimento ad alcune professioni svolte da figure femminili, ma abbiamo mai analizzato a fondo la questione? Perché determinate parole fanno ancora fatica ad entrare nel vocabolario della lingua italiana? E perché altre pur esistendo non vengono utilizzate?

La risposta a queste domande risiede in un nodo ancora troppo stretto tra la lingua italiana ed un passato ormai lontano, in cui determinati ruoli e professioni erano destinati esclusivamente agli uomini. Ma oggi è ancora così?

Il suggerimento dell’UNESCO è quello di declinare al femminile titoli, professioni, incarichi e qualifiche. Eppure quando si tratta di parlare di professioni al femminile ci si rifà spesso ad espressioni quali “sindaco donna”, “notaio donna”, “architetto donna”. “Sindaca”, “notaia” e “architetta” sono tuttavia parole la cui esistenza è accertata nella nostra lingua. Perché allora girarci intorno piuttosto che usare un’unica parola già in grado di indicare simultaneamente la professione e il genere che la svolge?

Oltre le parole

Siamo d’accordo che su un verbale di giuramento di una traduzione la dicitura “Il traduttore”, sotto cui chi ha effettuato la traduzione appone la firma, serve a semplificare e include oggigiorno anche la figura femminile. Inclusione, tuttavia, vuol dire che la donna viene integrata, considerata e non che abbia un posto ad essa dedicato.

Se ci fermassimo a riflettere, infatti, noteremmo che dietro determinate scelte linguistiche si nasconde un mondo dove la donna viene, magari non di proposito, posta in secondo piano. Si intende che inevitabilmente quando si parla di “traduttore” la prima immagine che giunge alla mente è quella di un uomo. Allo stesso modo di fronte alla parola “segretaria” il primo pensiero va ad una donna.

Paura del cambiamento

Certe parole faticano ad entrare nel nostro vocabolario perché si tende a considerare la lingua come una cosa sacra, intoccabile. Quando ci si ritrova davanti ad una parola nuova e bisogna decidere se accettarla o meno nella nostra lingua si assume spesso un atteggiamento di difesa, come se il cambiamento fosse necessariamente una minaccia. È proprio ciò che osservava Alma Sabatini nel 1987, in “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”:

La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione. Ciononostante la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza – se non paura – nei confronti dei cambiamenti linguistici, che la offendono perché disturbano le sue abitudini o sembrano una violenza “contro natura”.

Alma Sabatini ha parlato di evoluzione delle parole
Alma Sabatini – Photo Credits: web

È del tutto naturale che un cambiamento, qualunque esso sia, spaventi e che una parola nuova “suoni male” alle orecchie di chi non l’ha mai sentita. È un po’ come quando decidiamo di cambiare casa, ci vuole del tempo affinché la nuova casa venga sentita come completamente nostra. Non per questo decidiamo di restare nella vecchia casa.

Troppo spesso non ci rendiamo conto che sono proprio certi termini, in questo caso i titoli maschili riferiti a donne, a risultare inconsueti, in un’epoca in cui certe professioni non sono più svolte solo da uomini ma anche da donne.

Alcuni cambiamenti linguistici sono – e per questo andrebbero considerati come tali – il risultato di un ulteriore cambiamento, di un pensiero o di un atteggiamento, avvenuto nella società. Perché, ad esempio, abbiamo sostituito “spazzino” con “operatore ecologico”? Il significato dei due termini è lo stesso, ma il primo porta con sé un atteggiamento classista nei confronti di chi svolge questa professione.

Una questione d’uso

Perché invece si accettano facilmente neologismi come “apericena” e barbarismi come “digitare” (dall’inglese digit)? Il motivo è di facile intuizione: queste parole entrano silenziosamente nella nostra lingua semplicemente utilizzandole. Siamo noi quindi – regole della lingua permettendo – a definire il destino di certe parole. Nel momento in cui scegliamo di utilizzare quotidianamente un determinato termine accettiamo che questo entri a far parte del nostro vocabolario. La lingua è dunque una questione d’uso, come ha sottolineato il nostro linguista Francesco Sabatini:

Osate, innovate. La legge dell’uso deciderà sul destino di certe parole nuove.

Francesco Sabatini e la sua esortazione a rinnovare le parole
Francesco Sabatini – Photo Credits: web

Non si tratta di imporre determinate parole rispetto ad altre quanto di accettare il fatto che la lingua cambia e più velocemente di quanto crediamo. Bisognerebbe liberarsi da tutti quei vincoli passati legati ad una visione patriarcale. Sono proprio questi che impediscono alla lingua di evolversi come dovrebbe. Bisognerebbe formare nuove abitudini linguistiche che diventino espressione dei tempi e della società correnti.

La nostra, poi, è una lingua la cui bellezza risiede proprio nella ricchezza di termini ed espressioni che molte altre lingue non possiedono. Neutralizzarla significherebbe impoverirla, renderla priva di questa sua unicità.

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