Era il 1975 e il giovane Bruce Springsteen aveva all’attivo due album che erano stati in grado di suscitare apprezzamento e curiosità fra i critici musicali, ma ben poche soddisfazioni in termini di vendite e popolarità. Inevitabilmente, il suo terzo lavoro, Born to Run, nacque con un carico non indifferente di pressioni e aspettative. Per Springsteen si trattò del più classico dei “o la va o la spacca”: decisamente è andata.
“Ho visto il futuro del Rock ‘n’ Roll, il suo nome è Bruce Springsteen” Jon Landau
Born to Run: Jackpot!
“Jackpot!” È con questo termine che Springsteen in persona descrive quello che significò il lancio sul mercato di Born to Run quel 25 agosto 1975. L’album della consacrazione, dei vertici delle classifiche, dei biglietti per i tour oltreoceano. Lo spartiacque definitivo nella sua carriera. L’avvenimento tanto agognato ma allo stesso tempo, in qualche modo, temuto. Poteva un ragazzo di provincia di 26 anni essere pronto a tutto ciò che un successo planetario e travolgente avrebbe portato con sé?
Da quel momento in poi non si parlò più del “nuovo Dylan” o del “poeta della strada”. Ormai era Bruce Springsteen, ormai era il Boss. Newsweek e Time misero la sua faccia in copertina, cosa a quei tempi abbastanza rara per un musicista rock semisconosciuto fino a un attimo prima.
La fine del sogno americano e lunghe strade per fuggire via
Born to Run non fu soltanto l’album che allontanò definitivamente da Springsteen la preoccupazione di trovare due o tre ingaggi a settimana in qualche sperduto pub della provincia del New Jersey. Fu soprattutto l’album della maturità, quello in cui l’artista si accomiatò dalle sue visioni adolescenziali sull’amore e la libertà e iniziò a farsi domande sul significato stesso di essere americano in quel preciso momento storico: l’America non era più il paese innocente raccontato negli anni ’50. Era l’America della guerra in Vietnam, con le sue ferite terribilmente ancora aperte, il paese delle ingiustizie sociali e razziali, delle disillusioni che minavano le fondamenta stesse di quello che era il sogno americano.
Springsteen si rese conto che doveva raccontare tutto questo, e volle farlo attraverso il classico immaginario rock: portandolo con sé in viaggio, correndo in auto sulle lunghe strade americane (le infinite highways), con la complicità e l’amore di una donna seduta sul sediolino accanto.
Un viaggio lungo un giorno… o una vita intera
Il lavoro, che si compone di otto canzoni per una durata di circa 39 minuti, è immaginato come una serie di episodi che si sviluppano in una giornata e una nottata d’estate. Ad aprirlo, l’armonica di Thunder Road, brano che anticipa tutti quelli che saranno i temi del disco e della poetica del Boss anche negli anni a venire: due giovani della periferia americana, annoiati, delusi e intrappolati da una quotidianità che gli impone soltanto sudore e fatica, con nessuna prospettiva di miglioramento o riscatto sociale. La voglia di fuggire via e di rischiare, un’auto, una strada da percorrere insieme, con nient’altro che il vento tra i capelli e i propri sogni da tenere stretti. Non potremmo immaginare un inizio migliore.
Springsteen costruisce quasi cinematograficamente le immagini di questi giovani figli del proletariato americano che trascorrono le loro giornate di lavoro aspettando di arrivare all’unico momento in cui gli è consentito sognare i propri sogni di libertà e rivincita (Night), cercando la complicità di anime affini, nascondendosi in strade secondarie, nell’oscurità di certe notti in cui “it seemed you could hear the whole damn city crying” (sembrava potessi sentire tutta la dannata città piangere – Backstreets).
La terra promessa alla fine della strada
La title track si trova esattamente a metà dell’album, per legare tutto ciò che viene prima e dopo. La donna seduta accanto al guidatore è Wendy, una delle innumerevoli figure femminili nell’enorme produzione musicale dell’artista del Jersey. (La Mary di Thunder Road la ritroveremo in The River). Il brano inizia con la descrizione del sogno americano, diventato ormai una “trappola mortale, un’istigazione al suicidio”. Ecco quindi la necessità di proteggere a tutti i costi i propri sogni, l’importante è non fermarsi. Perché “un giorno, non so quando, raggiungeremo la nostra meta e cammineremo nel sole”, troveremo la nostra terra promessa, ovunque essa sia. Ma fino ad allora “i vagabondi come noi, piccola, sono nati per correre”.
Ma sarà un viaggio che metterà a dura prova i due innamorati e la loro speranza di libertà e riscatto, lasciandoli in balia del destino, delle strade pericolose delle città americane in cui “i poeti non scrivono nulla, sono nelle retrovie e lasciano correre, e nel mezzo della notte raggiungono il loro attimo provando ad essere onesti, ma si ritrovano feriti, non ancora morti. Stanotte nella giungla” (Jungleland).
“Non hai mai ascoltato nulla di simile prima, ma lo capisci immediatamente, perché questa musica – o il pianto di Springsteen, che canta senza parole, gemendo sulle ultime strofe di chitarra di “Born to Run”, o gli accordi sorprendenti che seguono ogni verso di “Jungleland”, o l’apertura di “Thunder Road” – è esattamente come dovrebbe essere il rock & roll”. Greil Marcus per Rolling Stone
La parola, il suono, la voce
Per sua stessa ammissione, nel comporre Born to Run, Springsteen aveva in mente la scrittura di Bob Dylan, il muro del suono di Phil Spector e la vocalità di Roy Orbison. Con questo disco (registrato interamente a New York) divennero proverbiali la sua maniacalità e la precisione nel curare ogni minimo dettaglio. Il meraviglioso assolo di sax di Clarence Clemons “Big Man” presente in Jungleland fu il frutto di sedici ore filate in studio.
La stessa scrittura di Born to Run impiegò sei mesi. L’incisione del brano avvenne sovrapponendo strumento a strumento, un muro di chitarre, batterie e tastiere, fino ad arrivare a settantadue tracce su sedici piste. La casa discografica pretendeva più voce ma Springsteen voleva che la sua voce desse realmente l’impressione di mettercela tutta per sovrastare il suono e il frastuono, che erano quelli del mondo là fuori.
Born to Run: una pietra miliare nella storia della musica
Il disco è il primo con la line up storica della E Street Band: Steven Van Zandt, Roy Bittan e Max Weinberg si aggiunsero a Clarence Clemons, Garry Tallent e Danny Federici. Sulla cover, anch’essa diventata iconica, una foto di Eric Meola, divisa fra copertina e retro, in cui Springsteen, con in mano la sua chitarra da 187 dollari e una spilla di Elvis appuntata sul giubbotto, si appoggia alla spalla di Clemons che a sua volta ha in mano il sax. Secondo l’artista, quella copertina raccoglieva il senso dell’album, che era un album anche sull’importanza dell’amicizia, e lasciava trasparire l’autenticità del forte legame tra i due musicisti.
Born to Run è stato inserito nella National Recording Registry ed è al numero 18 della classifica di Rolling Stone dei 500 album migliori di sempre. Dopo 45 anni, almeno sei delle otto canzoni sul disco costituiscono l’ossatura intrisa di vitalità e adrenalina di ogni live di Bruce Springsteen e la sua E Street Band. Con i suoi brani costruiti sul piano e sui fiati, le storie raccontate da una vocalità poetica e graffiata, il Boss ha ridefinito i canoni del rock americano, raccontandone la fine del sogno e diventando la voce dei diseredati d’America, e più in generale degli ultimi delle province di tutto il mondo.
“Volevo fare un disco che sembrasse l’ultimo della Terra, l’ultimo disco che potresti ascoltare… l’ultimo che avrai mai BISOGNO di ascoltare.”
Emanuela Cristo
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