Oggi si dicono non particolarmente soddisfatti del mixaggio originale del loro primo album, in cui, a quanto dicono, ci sarebbe troppo “riverbero”. Avrebbero forse preferito un suono più “pulito e asciutto”. Ma probabilmente è a causa dei sentimenti conflittuali che molte band sembrano provare nei confronti degli album che le hanno rese famose a livello mondiale, procurandogli da un giorno all’altro ricchezza e successo. Fatto sta che il 27 agosto del 1991 i Pearl Jam pubblicavano il loro album d’esordio, Ten, e una nuova epoca nella storia della musica veniva inaugurata.
“Stavano lavorando ad un disco che li avrebbe resi famosi in tutto il mondo e noi non ne avevamo la minima idea” Louie Raffloer
Dal seminterrato alla Rock ‘n’ Roll Hall of Fame
In un tempo non lontanissimo ma che ormai sembra distare anni luce, prima dei talent e delle band preconfezionate, c’erano giovani appassionati di musica che si chiudevano nei garage o negli scantinati per ore ed ore, provando a tirare fuori dagli strumenti e dalle loro teste, dei suoni e una musica che piacessero prima di tutto a sé stessi, sperando che potessero poi destare l’interesse anche del mondo fuori da quegli scantinati.
Il seminterrato in cui gli allora Mookie Blaylock (dal nome di un giocatore dell’NBA) passarono mesi a provare le tracce di Ten era sotto il negozio di manufatti di ferro Raffloer e Gioia, a Seattle. Il bassista Jeff Ament e il chitarrista Stone Gossard tornarono a suonare insieme dopo la tragica scomparsa di Andy Wood, loro frontman nei Mother Love Bone. Ai due si unì il chitarrista Mike McCready. Consegnarono una demo di cinque canzoni a Jack Irons, dei Red Hot Chili Peppers, il quale la inviò a “Eddie il pazzo”, benzinaio a San Diego. Eddie ascoltò i pezzi, scrisse tre testi e dopo una settimana era il cantante del gruppo.
Nel 2017 i Pearl Jam sono entrati nella Rock ‘n’ Roll Hall of Fame. Sono ormai considerati una delle più grandi band di sempre e i padri di una delle cosiddette “tre vie del grunge”, il “sound di Seattle”, genere che vide la luce nei primi anni ’90. Se i Nirvana (che nel ’91 pubblicarono l’iconico Nevermind) diffusero un grunge influenzato maggiormente dal punk, e gli Alice in Chains si produssero in un suono che risentiva del metal, il grunge dei PJ portava in sé il rock classico degli anni ’70 e la durezza del post-punk anni ’80 ma con una costante attenzione alla melodia.
“C’era come un velo di tristezza. Pensavo: è deprimente che decine di milioni di persone si riconoscano in canzoni del genere. Chissà, forse era una cosa salutare per tutti quanti”. Eddie Vedder
I semi del grunge in Ten
Eddie Vedder rimase spiazzato dal successo di Ten (il titolo si riferisce al numero di maglia di Mookie Blaylock). La motivazione è da rintracciare nei temi cupi e introspettivi, tipici del grunge, trattati negli undici brani dell’album: suicidio, depressione, omicidio, disturbi mentali, episodi di cronaca nera e alienazione.
Il lavoro si apre con le prime parole di Once: “I admit it…” un “Lo ammetto” che sa già di confessione e di atmosfera intimista. La canzone ruota attorno ad un sentimento di follia omicida. Even Flow, uno dei brani più amati del gruppo, tratta, con un rock trascinante, la problematica dei senza tetto. Il tema delle cliniche per malattie mentali è presente invece in Why Go. Porch racconta la sensazione di inadeguatezza nei confronti di un mondo che va sempre più di fretta. Pensiero che ricorre anche in Garden: “I don’t question our existence, I just question our modern needs”.
Sentimenti di solitudine invece pervadono Deep, mentre Black è una delle ballad più struggenti e amate dell’intero repertorio dei PJ. Una nota semiautobiografica, invece, è rappresentata da Alive, brano su un ragazzo che scopre della morte del padre biologico di cui non conosceva l’esistenza e che presenta delle similitudini con le vicende personali di Vedder. È ad oggi una delle canzoni più identificative della band. Jeremy è ispirata ad un fatto di cronaca nera in cui un ragazzino si sparò davanti ai propri compagni di classe (Jeremy spoke in class today). Il videoclip del brano fu pluripremiato agli MTV Video Music Awards del 1993. Ma c’è posto anche per le atmosfere meno cupe di Oceans e per aspirazioni di liberazione nella magnifica Release che chiude l’album.
La pietra fondativa del pianeta Pearl Jam
I Pearl Jam registrarono Ten in un mese ai London Bridge Studios di Seattle. Il batterista per le sessioni agli Studios fu Dave Krusen, che lasciò il gruppo prima della pubblicazione per risolvere i propri problemi di alcolismo. (Dal ’98 la formazione vede Matt Cameron alla batteria). L’album ottenne il disco d’oro l’anno successivo e nel frattempo la band fu impegnata in un lungo tour di promozione in cui le straordinarie doti da frontman di Vedder ebbero modo di uscire allo scoperto e consolidarsi.
Ten ha già in sé quelli che saranno gli elementi peculiari del sound e della poetica dei Pearl Jam nel corso della loro storia: grandi riff di chitarra, rumore e frastuono, ma anche melodia e lirismo, temi introspettivi e impegnati, addolciti dalla inconfondibile voce di Vedder, profonda, fiera e graffiata. Sulla copertina dell’album ci sono i cinque ragazzi uniti con le mani alzate al cielo, su uno sfondo con la scritta Pearl Jam, realizzato da Ament, il quale ha affermato:
“L’idea originale era di stare insieme come gruppo ed entrare nel mondo della musica come una vera band… una sorta di patto tutti per uno”.
A ventinove anni dall’uscita di Ten, sempre inseguendo la loro personale catarsi musicale, i Pearl Jam sono ancora lì, fedeli a loro stessi. Quel patto è più saldo che mai.
Emanuela Cristo
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