Cara Maestra è una canzone di Luigi Tenco datata 1962. Il testo fu decisamente innovativo per quei tempi, poiché, denunciava le ipocrisie e i perbenismi della società dell’epoca. Successivamente, a causa di questa canzone, la RAI allontanò per circa due anni il cantautore della ”scuola genovese”.
Cara Maestra: consuetudini socialmente accettate veicolo di disuguaglianza
Luigi Tenco, il cantautore dalla personalità fiera, malinconica, idealista: nelle sue canzoni si scorge una ridondanza nostalgica abbinata a storie di vita quotidiana. Una personalità tormentata che fioriva in un’epoca in cui le canzoni spensierate, i noti ”musicarelli” ed il pop decollavano verso il successo. Un uomo che, fino alla sua tragica fine, portò avanti le sue convinzioni:
«Io compromessi non ne ho fatti mai, con nessuno, perché non ne so fare, non riesco a venire a patti con la coscienza, cioè con certe mie convinzioni. Io sono come sono. Eppoi la mia non è una protesta che nasce intellettualmente, con il fatto di dire adesso io … Cioè io insomma le canzoni come le fa Gianni Morandi non le so fare.»
I suoi testi non riflettono la goliardia, la spensieratezza come a quel tempo si auspicava: è la denuncia di una società infiocchettata da ipocrisie, perbenismo, consuetudini e convenzioni che, invece, attestano proprio il contrario rispetto a quello che cercano di insegnare. Cara Maestra è, infatti, una delle canzoni che più si avvicinano a questa ideologia, sostenuta di Tenco. La condanna dei compromessi, che non sempre devono essere accettati: ma, e soprattutto, lo sdoganare di ”falsi miti” socialmente propinati che, tuttavia, veicolano messaggi tutt’altro che positivi.
Disuguaglianza sociale vestita da perbenismo
Il brano si identifica in una sorta di ricordo infantile: Luigi Tenco ricorda i tempi della scuola. Con un’ironia dolce e amara e al contempo malinconica ricorda quella figura d’infanzia ed i suoi insegnamenti perbenisti e retorici che, tuttavia, non sempre trovavano riscontro con la realtà. La figura della Maestra rappresenta un’autorità; il veicolo pedagogico per eccellenza. Ciononostante, non è un attacco alla classe docente bensì, alle ideologie e convenzioni radicate sulle personalità che, tecnicamente, dovrebbero essere un esempio. La Maestra è generica, così come successivamente il buon Curato e l’egregio Sindaco. Ma facilmente queste persone si ritrovano presenti nella vita di ognuno. Il cantautore si serve della funzione che esercitano queste figure nella società per inviare un messaggio forte, per quel tempo: a volte, alcune convenzioni sociali non solo sono incoraggiate ma, addirittura, si normalizzano diventando consuetudini. Si arriva ad una sorta di assuefazione a quelli che, sostanzialmente, sono solo l’esempio di un profondo e radicato annuncio di disuguaglianza sociale travestito da educazione e rispetto o, peggio ancora, uguaglianza sociale che di fatto, non c’è. Da dove inizia il senso di disuguaglianza fra fatti e parole se non già in classe?
La maestra, il direttore e il bidello: l’uguaglianza professata e non applicata
Luigi Tenco descrive un’immagine consueta, talmente ovvia che, spesso, non ci si accorge di come un ambiente scolastico che dovrebbe impartire umanità, umiltà e uguaglianza mini a ricalcare differenze; è lo stesso scenario che insegna l’uguaglianza e la benevolenza verso il prossimo ma che poi, suggerisce come una persona che occupa un ruolo inferiore nella società non sia così degna di rispetto, al posto di qualcuno che occupa un ruolo inferiore:
Cara maestra, un giorno m’insegnavi
Che a questo mondo noi, noi siamo tutti uguali;
ma quando entrava in classe il direttore
tu ci facevi alzare tutti in piedi,
e quando entrava in classe il bidello
ci permettevi di stare seduti.
Il direttore è un autorità persino per la Maestra; in segno di rispetto, insegna ai suoi allievi ad alzarsi in piedi. Tuttavia, pur professando questi insegnamenti, non ritiene degno di simili attenzioni un bidello perché gerarchicamente appartenente ad una categoria inferiore. Nonostante questa falla educativa, la maestra continua a predicare, in modo fallace, ne consegue, l’uguaglianza sociale e il rispetto… Non rendendosi conto che è lei per prima ad essere investita da una grossa lacuna umana.
Critica alla Chiesa
L’attenzione del cantautore si rivolge poi alla chiesa; probabilmente, ad un curato di provincia: forse lo stesso che celebrava messa nei luoghi della sua infanzia. La maestria dei testi di Tenco sta nel mescolare delicatezza a toni ironici e realismo, senza eccedere nell’attacco: in questo caso si rivolge con amaro sarcasmo, al mancato voto di povertà che il clero – anche qui, tecnicamente – dovrebbe abbracciare. L’emozione nei versi di Luigi Tenco scaturisce dal modo di porre la realtà senza veli, resa in modo semplice e ingenuo, quasi a domandare il perché delle ingiustizie se, le filosofie di pensiero di alcuni ideali – o forse, il filosofeggiare? – attestano tutt’altro. Così si rivolge al buon Curato ricordandogli come spesso predicava sulla chiesa: di come fosse la dimora dei poveri. Tuttavia, quella dimora, è ora imbellettata, ornata, riboccante di opulenza: e come potrebbe adesso, un povero, sentirsi come se fosse a casa sua quando entra? Un interrogativo disarmante.
Cara Maestra: la classe politica rappresentata dall”’Egregio sindaco”
L’ultima strofa si rivolge ad un fantomatico egregio Sindaco, figura similare a molti politici: in conclusione, questa è la figura per cui, il cantautore, si rivolgerà in modo più aspro. Il motivo è che non ci sono solo in gioco le convenzioni sociali inficiate, adesso: si tratta di abuso di potere, non meditazione delle conseguenze che potrebbero essere nocive per il bene comune; quel bene che, un figura politica, dovrebbe preservare nei confronti del popolo che guida. E’ il gioco di potere di chi si erge sopra le masse, grida ad ideologie sulla patria, l’uguaglianza, i buoni sentimenti.
Ma che poi, di fatto, sta nelle sue comode mura forgiate da egoismo e viltà, mandando ”avanti” quegli uomini che dovrebbe custodire e aiutare – che si affidano totalmente a lui, in quanto figura autoriale -, senza che questi ultimi abbiano scelto, tutto sommato, il loro destino. Con il candore quasi di un bimbo, Luigi Tenco si rivolge alla classe politica servendosi della figura del sindaco, chiedendo come mai una figura che urlava alle ideologie più alte ed alla morte per le stesse, non ha né vinto né è morto: ma al posto suo, che tanto dibatteva, è morta gente comune che non aveva sete né di vittoria né, aveva intenzione di morire.
Una critica costruttiva ancora attuale
Ne consegue un’aspra critica ai più grandi ambiti del sociale, l’istruzione, la politica, la chiesa: aree simboleggianti l’uomo che si forma nel bene, l’uomo adulto che lotta per quel bene che ha imparato, per renderlo comunitario e l’uomo che quel bene dovrebbe professarlo, predicarlo ed elargirlo. Tre pilastri fondamentali di ogni società che, a quel tempo, furono investiti da una canzone talmente scomoda e critica in un clima in cui, fiorivano le melodie spensierate. Non è un caso che Luigi Tenco avesse affermato più volte che, la sua ambizione, non era il successo né tanto meno i soldi: ” non si vive per star simpatici agli altri”, soleva dire. Il suo auspicio era che il suo pubblico lo capisse attraverso le sue canzoni. Disarmante il biglietto che trovarono a Sanremo quel 27 gennaio 1967, anno della sua morte e del suo suicidio. Un uomo malinconico che spesso si sentiva incompreso ma che affermava verità ancora attuali, purtroppo; l’ipocrisia della società che inizia troppo presto ad essere impartita, in ambienti in cui dovrebbero vigere gli insegnamenti umani, prima che nozionistici: una lezione non richiesta che porta all’assuefazione e diventa consuetudine travestita da bontà.
Stella Grillo